Abbiamo chiesto ad Alessandro Barbano, già direttore de Il Mattino, de Il Riformista, del Messaggero, autore di testi importanti sulle disfunzioni del sistema giudiziario (tra gli altri: L’inganno e La gogna) una sua opinione sull’introduzione del divieto di pubblicazione delle ordinanze applicative di misure cautelari.

Allora, vi sentite imbavagliati? Il diritto di cronaca è compromesso? La libertà di stampa è in pericolo?
Io penso che parlare di bavaglio è grottesco in un Paese dove la libertà di stampa è diventata la libertà di uccidere. Il danno da informazione, questo è il problema, si realizza ben prima e ben oltre la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare per riassunto o per estratto, perché qualunque influencer può distruggere la vita delle persone pubblicando notizie, atti istruttori, per così dire letali. Che dire dei giornalisti che negli ultimi tempi hanno preso a pubblicare gli atti istruttori delle indagini archiviate come prove di colpevolezza? È un malcostume senza precedenti. C’è un’indagine su un binario morto che sta per chiudersi con il proscioglimento dei convolti e io pubblico gli atti di accusa come verità mediatiche, finendo per ignorare il fatto che la Procura ha chiesto l’archiviazione. Allora se questa è la realtà, il tema della compressione della libertà meriterebbe ben altra assunzione di responsabilità da parte degli Ordini e della Federazione della Stampa.

La Federazione Nazionale della Stampa ha parlato di “un piacere ai potenti che vogliono l’oscurità”. Non è forse eccessivo visto che si può pubblicare il contenuto dell’ordinanza per riassunto? Si può parafrasare l’ordinanza, senza pubblicarla anche solo per estratto. Non è un’ipocrisia? È vietato copiare dal Bignami (oggi dalle fonti aperte via web) ma se il contenuto lo riporti “con parole tue” (magari anche più “cattive”) allora va tutto bene.

Credo che non sarà sufficiente e che non avrà nessun impatto sostanziale. Di riassunto si può morire non diversamente da come si muore di intercettazioni, non diversamente da come si muore di estratto o di pubblicazione integrale. Se un giornale scrive che il sottoscritto è stato arrestato con l’accusa di pedofilia per aver abusato di una bambina e lo racconta per sintesi anziché esibire le intercettazioni, non per questo la gogna è meno dura.
La parafrasi maliziosa e suggestiva, scritta con l’intento di darne l’interpretazione autentica del sospetto del pubblico ministero, per me è una lama non meno affilata del testo integrale dell’ordinanza cautelare. Questo per dire che il rimedio di vietare la pubblicazione, come una conquista di civiltà, non protegge l’indagato che ne è destinatario. Secondo me, sia per la natura della custodia cautelare che per la centralità che ha assunto nella prassi, limitare la pubblicazione significa sottrarla al controllo dell’opinione pubblica. E siccome l’ordinanza cautelare è uno dei provvedimenti più gravi che un giudice può adottare, sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica è molto grave. Quindi, sia per riassunto, sia per estratto, sia per intero si può fare esercizio di giustizialismo feroce, mentre limitare la libertà del giornalista, che nel 99% dei casi purtroppo viene esercitata in chiave colpevolista, non è la soluzione ma un pannicello caldo con degli effetti collaterali non indifferenti.

Tante volte potrebbe avere interesse lo stesso indagato a richiamare un estratto dell’ordinanza per stigmatizzarne pubblicamente l’irragionevolezza oppure per mitigare le insinuazioni giornalistiche e per meglio precisare l’ipotesi d’accusa per la quale è sottoposto a misura cautelare. Il rischio non è forse un cortocircuito?

Sono assolutamente d’accordo. Sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica per tutto l’arco temporale delle indagini vuol dire sterilizzare l’azione penale dentro la sua procedura. Quante volte dietro la legalità formale di un provvedimento cautelare si cela un abuso autoritativo dello Stato. E poi il fatto che i giornalisti non siano abituati a smascherarlo ma anzi si servano di quelle motivazioni per amplificare la congettura accusatoria, non è un motivo per sovvertire i principi della pubblicità del processo. La soluzione è un’altra, è quella di vincolare i magistrati a inserire nella richiesta di misura cautelare solo gli elementi di prova pertinenti con l’imputazione. Ecco questo è il tema. Ormai da tempo la contestualizzazione del fatto è diventata un alibi per istruire un processo mediatico centrato sulle coordinate del moralismo in cui si affida l’esecuzione della pena ai giornalisti. Non a caso la gogna si realizza quasi sempre attraverso intercettazioni informatiche ed altri atti istruttori che sono scarti di materiale probatorio, privi di qualunque rilevanza ai fini della condanna. Brandelli di confidenze, emozioni, desideri di rivalsa, sono ricostruiti con un metodo congetturale che li pone a confronto non con le fattispecie penali ma con la loro contrarietà alla morale. Il problema, tuttavia, è come dire, guarire da questa giustizia “esplorativa”.

Il decreto legislativo di adeguamento alla Direttiva europea sulla presunzione d’innocenza non si applica direttamente ai giornalisti. Non sarebbe il caso di pensare ad un’articolata disciplina che induca i giornalisti a ricostruire i fatti con equilibrio, senso critico, senza trascurare le possibili ipotesi alternative rispetto alla “verità” narrata dalle Procure? Sarebbe anche più interessante per il lettore.

Esattamente, i giornalisti oggi sono anelli di silicio, conduttori elettronici di una propagazione mediatica della notizia. Il giornalista dovrebbe anche saper contraddire un’ipotesi acclarata e conformisticamente condivisa. Si può restituire al giornalismo quella funzione di “manutentore civile” che dovrebbe avere in una democrazia. Invece questo non accade, il giornalista si muove come un amplificatore del racconto giudiziario della pubblica accusa. Questo è un problema di grandissima patologia che però non risolvi amputando le mani del giornalista. Anche perché lo scandaglio interpretativo del giornalista è più ampio di quello della magistratura, perché il PM deve accertare l’illegalità di un comportamento umano mentre il giornalista rivendica anche il diritto di discutere la moralità. È evidente che se tu mi metti all’interno di un ordinanza di custodia cautelare non solo gli atti che provano la colpevolezza, la premeditazione, ma mi metti anche le dichiarazioni del papà di Turetta al figlio nel primo incontro che hai intercettato, che hai spiato, perché francamente hai ritenuto che fosse necessario intercettare il colloquio in carcere del figlio col padre, e poi hai ritenuto che quelle dichiarazioni fossero pertinenti al reato, perché il giornalista non dovrebbe commentarle? La conseguenza è l’ingiusta crocifissione di un padre senza capire che quelle parole sono le parole della disperazione, del conforto, della paura. Ci vuole una sensibilità a maneggiare quel tizzone incandescente che c’è in quelle parole. Il problema non è il giornalista ma la pertinenza probatoria degli atti istruttori. Allora se noi crediamo di risolvere lo sconfinamento morale del processo penale amputando la libertà del giornalista noi commettiamo un errore clamoroso perché legittimiamo che l’unico detentore del moralismo che si impone alla democrazia sia la pubblica accusa, e quindi riduciamo anche la possibilità che il giornalista possa svolgere il ruolo di contraddittore del senso comune.

Alberto de Sanctis e Francesco Iacopino

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