La riforma che, in buona sostanza, vieta la pubblicazione di stralci delle ordinanze cautelari, ma non di raccontarne il contenuto, appartiene a quella categoria di provvedimenti legislativi che colgono la evidenza di un problema, ma lo risolvono a metà. Un po’ e un po’. Un passo avanti ed uno di lato. E quando fai questi balletti, poi rischi addirittura di inciampare.

Il problema

Conosciamo tutti il problema: quando si ordina la cattura di una persona, perché accusato di un grave reato, occorre che il provvedimento spieghi dettagliatamente perché ciò stia avvenendo. Senonché quello della ordinanza cautelare è un racconto inevitabilmente unilaterale, sebbene vagliato da un giudice terzo (diciamo meglio: teoricamente terzo). Lo è perché l’indagine è una solitaria costruzione del PM e della polizia giudiziaria; il materiale investigativo utilizzato per motivare la richiesta della misura è frutto di una selezione ovviamente tutta in chiave accusatoria (si pensi alla cernita del materiale intercettativo); il Giudice che accoglie la richiesta redige l’ordinanza senza avere mai potuto ascoltare il punto di vista difensivo.

Un racconto unilaterale simile ad una sentenza di condanna

Ma questo racconto unilaterale, che nella quotidiana esperienza giudiziaria sarà molto spesso smontato e riscritto dalla successiva opera difensiva, ha inesorabilmente la micidiale forza comunicativa di una sentenza di condanna. Tu leggi la ordinanza cautelare contro Enzo Tortora, ed hai la descrizione di un farabutto che, dietro una maschera perbenista, trafficava cocaina a chili in combutta con i peggiori camorristi del Paese; poi ne riparliamo anni dopo, e con tante scuse.

Tra diritto di cronaca e linciaggio

Dunque, alle solite prèfiche che frignano di bavagli alla stampa (che noia, Dio santo, con questa storia ridicola), facciamo notare che questo diritto di cronaca che esse invocano senza limiti, pretende di essere esercitato lanciando come sassi contro un cittadino in ceppi un dettagliato campionario di accuse all’apparenza insuperabili, senza che il povero cristo abbia potuto dire – come diceva mio nonno – né ahi né bhai. E si vorrebbe risolvere l’evidenza di questo linciaggio con qualche marginale parolina di circostanza (“presunto innocente, naturalmente”, o roba simile). D’altro canto, in nessun altro Paese civile accade che atti di una simile incontrovertibile unilateralità accusatoria possano essere dati in pasto alla pubblica opinione in nome della libertà di manifestazione del pensiero. Giusto in un Paese di analfabeti funzionali del diritto e della Costituzione quale il nostro, un simile obbrobrio diventa simbolo e vessillo di libertà.

Il problema della riforma

Ma la soluzione adottata da questa riforma ha davvero senso? Questo è il punto. Non puoi pubblicare dettagli testuali della ordinanza, e va bene, ma puoi farne il riassunto, la cui fedeltà è peraltro rimessa al buon cuore del cronista. Ora, ve li immaginate i “riassunti” che leggeremo su certi giornali, sui social, nei podcast messi in rete il giorno dopo l’esecuzione della misura? Occorreva più coraggio, cioè occorreva – per esempio – stabilire che, fermo il diritto-dovere di dare notizia dell’arresto, del contenuto della ordinanza potrai parlare solo dopo che la difesa abbia avuto almeno l’occasione processuale per confutarlo (ad esempio, dopo l’udienza del riesame). Prima di questo (almeno di questo), si tratta di materiale investigativo coperto da segreto, e non si pubblica, né per stralci, né per riassunto.

Fare la voce grossa per risolvere giustamente un problema, e poi rimanere a metà strada, non è mai la scelta migliore, ed anzi rischi, alla lunga, di fare anche danni maggiori. Tema non facile, per carità, nessuno ha la soluzione in tasca. Perciò ne vogliamo parlare in questo numero di PQM, con il quale riprendiamo il nostro appuntamento settimanale con i nostri lettori. Noi ne siamo lieti, speriamo lo siate anche Voi.

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