È opportuno evidenziare la consistente attività svolta dal Nicosia Giuseppe, sia in qualità di Sindaco sia in qualità di avvocato, di contrasto alla criminalità…”. E’ questo uno dei passaggi della sentenza di assoluzione nel procedimento denominato Exit Poll, nel quale a Giuseppe Nicosia, allora sindaco di Vittoria, importante Comune della provincia di Ragusa, veniva affibbiata l’imputazione di voto di scambio politico mafioso e varie imputazioni di corruzione elettorale riguardanti le elezioni comunali del 2016.

E’ meglio iniziare dall’epilogo e dalla conclusione di questa paradossale vicenda giudiziaria, per poter meglio rappresentare le ragioni del grottesco errore giudiziario, che ha avuto inizio con l’arresto di Nicosia, sindaco di Vittoria negli anni 2006-2016, con l’accusa di “voto di scambio politico mafioso” e messo ai domiciliari. Accusa gravissima ed infamante, basti pensare a quella che era stata la sua vita, la sua attività professionale e politica, prima che tutto crollasse sotto i colpi della malagiustizia. Durante il mandato amministrativo si è scontrato in più occasioni con l’imprenditoria privata gravitante attorno al sistema dei rifiuti e delle discariche, con la burocrazia regionale e con alcuni esponenti politici. Non so se abbia avuto un ruolo maggiore quest’ultimo aspetto o l’odio della criminalità nell’alimentare l’indagine che lo ha visto calunniosamente accusato da falsi collaboranti. È stato dimostrato nel processo che i primi accusatori avevano precedentemente subito “offese e torti” istituzionali e professionali, con propalazioni che sono state ritenute in sentenza non adeguatamente riscontrate ed approfondite dagli inquirenti, o addirittura sopravvenute in soccorso alle defaillance delle indagini preliminari che avevano portato al suo arresto. Il “calvario” giudiziario per 6 lunghi anni ha condizionato la sua esistenza personale, conseguentemente la storia politica amministrativa del Comune di Vittoria, che è stato sciolto per mafia.

La notte di quel 21 settembre 2017 è stato raggiunto a casa dagli uomini del Gico, muniti di giubbotti antiproiettile ed armi in pugno che circondavano la sua abitazione di villeggiatura, dove dormiva suo figlio di 5 anni, e con il rumore assordante dell’elicottero che quasi si poggiava sul tetto di casa. Il tutto semplicemente per notificargli la misura cautelare degli arresti domiciliari. Nella mattinata, dopo aver subito l’onta delle foto segnaletiche e delle impronte digitali, veniva riaccompagnato a casa e dalla TV poteva assistere alle immagini diramate dalla Procura Distrettuale di Catania. Immagini della sua casa, di un ex sindaco del PD arrestato per connivenze mafiose facevano il prevedibile scalpore e la notizia e le riprese televisive venivano diffuse su tutte le maggiori testate nazionali e locali. Il procedimento denominato dalla DDAExit Poll” coinvolgeva, tra gli altri, anche due ex assessori della sua giunta, suo fratello Fabio Nicosia, il sindaco eletto dopo di lui e due soggetti con precedenti penali con i quali non aveva mai avuto alcun rapporto ma i cui risalenti precedenti erano utili per “condire” l’inchiesta con l’ingrediente del sospetto della presenza mafiosa. La semplice lettura dell’ordinanza di misura cautelare rendeva evidente l’inusuale somma di errori grossolani che gli inquirenti stavano commettendo: scambi di persone, equivoci sui nominativi, gettoni di presenza per il consigliere comunale scambiati per prebende corruttive.

A questo si sommò l’assenza totale di qualsiasi riscontro alle generiche e fantasiose dichiarazioni di due collaboranti e il curioso quinto capo di imputazione ove in buona sostanza si accusava Nicosia di aver sostenuto uno dei due candidati al ballottaggio e le esigenze cautelari motivate dall’approssimarsi delle imminenti elezioni regionali che si sarebbero svolte nel mese di novembre.

Una motivazione politico-elettorale, riconducibile storicamente alle logiche del confino fascista, per giustificare l’arresto di un ex sindaco che, in quanto ex, da oltre un anno e mezzo non aveva più accesso agli uffici ed alle pratiche amministrative e non poteva né reiterare né occultare prove. L’arresto nel giro di pochi giorni veniva revocato dallo stesso GIP, firmatario dell’ordinanza cautelare, poiché in sede di interrogatorio Giuseppe Nicosia dimostrava l’assurdità dell’ipotesi accusatoria. Il Tribunale del Riesame annullava tutte le misure cautelari per inesistenza di indizi di reato. La Procura di Catania impugnava tale decisione ma la Corte di Cassazione, nel marzo 2018, confermava l’annullamento per inesistenza di indizi di reato. Conclusasi l’indagine della Procura che si vedeva costretta a stralciare e proporre l’archiviazione dell’accusa ex art 416 ter, mantenendo in vita solo ulteriori minori ipotesi di reato, Giuseppe Nicosia esternò le preoccupazioni “di restare nel mirino” in considerazione della sovraesposizione mediatica alla quale la conferenza stampa della Procura lo aveva esposto.

Erano infatti stati diffusi stralci dell’indagine, per cui qualunque aspirante collaborante avrebbe potuto tranquillamente attingere al materiale diffuso in conferenza semplicemente leggendo i giornali e ripetere il canovaccio di generiche accuse. Puntualmente la fosca previsione si avverò. Nell’agosto 2018 perveniva un nuovo inedito avviso di “riformulazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, emesso il 31 maggio 2018, a seguito delle dichiarazioni rese dal cdg Melfi Emanuele” con il quale veniva riproposto un nuovo capo di imputazione ex art. 416 ter a carico dell’esponente seppur con un’esposizione dei fatti modificata. Magicamente saltava fuori un nuovo collaborante che ripeteva a pappagallo agli inquirenti, riportandole in modo estremamente maldestro, le circostanze praticamente lette sui giornali. L’indagine smontata dalla Cassazione riprendeva così vigore. Tutto ciò irrobustiva e giustificava la relazione prefettizia per lo scioglimento del Comune, che perveniva nell’agosto 2018 e che poggiava quasi per intero sulle indagini del procedimento “Exit Poll”.

L’istruttoria dibattimentale dimostrava che i due primigeni collaboranti non avevano in realtà nulla di serio da riferire nei confronti di Nicosia. Che nessuno aveva proceduto ad alcun riscontro effettivo e che tra le circa 100.000 intercettazioni non ve ne era neanche una tra Giuseppe Nicosia ed interlocutori anche semplicemente sospettati di mafiosità. Che nonostante le perquisizioni, nelle case e nelle sedi politiche, non era stata rinvenuta nessuna prova utile per l’accusa. Che il neo pentito che aveva prestato “soccorso istruttorio” alla Procura era del tutto mendace e privo di riscontri, che le ipotesi accusatorie, anche quelle minori, risultavano illegittime ed inammissibili decine di migliaia di intercettazioni. L’istruttoria dibattimentale era così evidentemente favorevole per le ragioni dell’ingiustamente incolpato, che il PM nelle sue conclusioni ne chiedeva egli stesso l’assoluzione con la premessa che nel procedimento Exit Poll vi era stata “un’eccessiva partecipazione emotiva di tutte le parti”.

Purtroppo, come spesso accade per gli errori giudiziari, a fronte della grande risonanza mediatica nazionale che ha avuto il caso Nicosia, ancora oggi se avviamo un motore di ricerca vediamo scorrere le immagini dei servizi Rai, Sky, Mediaset e delle maggiori testate giornalistiche nazionali, la notizia dell’assoluzione è stata recepita e diffusa solo da qualche giornalista di buona volontà. Nonostante l’esito ampiamente positivo di questo assurdo caso di malagiustizia resta un sapore amaro e vari interrogativi per le modalità, le anomalie o eccentricità, che hanno caratterizzato l‘attività persecutoria nei confronti di Giuseppe Nicosia e che vanno sottoposti all’attenzione pubblica perché concreto è il rischio che tali anomalie giudiziarie possano continuarsi a perpetrare in uno Stato democratico. La somma dei grossolani errori commessi ha generato arresti illegittimi, diffusione di immagini denigratorie, probabili traumi ai figli di Nicosia e uno stigma di mafiosità su di lui, sui suoi familiari e sulla storia amministrativa della città. Un processo inutile ed evitabilissimo, ma nessuno avverte l’esigenza di chiedere scusa, anche solo per salvaguardare la credibilità delle Procure e nessuna pagherà per gli errori commessi.