Distanza incolmabile tra intenzioni e realtà
Riforma della giustizia, diciamoci la verità occorre già riformare le riforme
Al netto della abrogazione del reato di abuso di ufficio, riforma importante che mi auguro vada in porto senza modifiche così come proposta dal Governo, sul resto di questo primo pacchetto di riforme governative del processo penale occorre dirci la verità. Esiste infatti una distanza molto significativa se non addirittura decisiva tra i virtuosi principi liberali che con esse si vorrebbero affermare, ed il concreto ed effettivo impatto riformatore che le norme proposte riuscirebbero ad ottenere nella loro attuale formulazione.
Si guardi, per esempio, alla riforma della custodia cautelare. “Sarà un collegio di giudici a decidere sulle richieste del PM, e l’indagato avrà diritto ad essere interrogato prima della emissione della misura”, ha orgogliosamente rivendicato il Ministro Nordio a Cernobbio, in un tripudio di applausi. Magnifica intenzione, tuttavia destinata – allo stato – a rimanere tale. Innanzitutto viene escluso da questa innovazione garantista l’ormai vastissimo catalogo dei reati c.d. di maggiore allarme sociale, come se la presunzione di non colpevolezza ed il rafforzamento dei diritti di libertà dell’indagato possano avere una diversa considerazione solo perché il reato ipotizzato dal PM è più grave di altri. Ma soprattutto essa trova applicazione solo nel caso in cui il PM invochi la misura cautelare paventando il pericolo di reiterazione del reato. Basterà dunque che il PM ipotizzi – in modo del tutto insindacabile in quella fase – altresì il pericolo di inquinamento della prova (cosa che già oggi avviene nove volte su dieci!), per vanificare la epocale riforma, limitandola quindi ad un numero davvero eccezionale e marginale di casi.
Analoga considerazione occorre fare per il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione da parte del P.M. Benissimo, purché si sappia che tale divieto viene limitato ai reati minori (quelli di competenza del giudice monocratico), rispetto ai quali – statistiche alla mano – le impugnazioni delle Procure sono davvero sporadiche, se non del tutto eccezionali.
Clamorosa è poi la illusorietà della cosiddetta “stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni”. E questo non solo perché l’ampliamento del divieto è impercettibile (estendendosi alle intercettazioni “non utilizzate” dal Giudice), ma soprattutto perché la norma si guarda bene dal mettere mano sulla ridicola sanzione (poche decine di euro) prevista per chi viola quei divieti, che è la vera e sola causa della impunità della gogna mediatica che si intenderebbe combattere. Questo mentre, con l’altra mano, lo stesso governo amplia – contro le indicazioni della stessa Corte di Cassazione – la micidiale intrusività dello strumento intercettativo ben oltre i reati di mafia. L’auspicio dunque è che, in nome di una autentica volontà riformatrice liberale, voglia porsi rimedio a questa oggi incolmabile distanza tra intenzioni e realtà.
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