Luoghi e occasioni per parlare di giustizia predittiva e intelligenza artificiale nel comparto giustizia aumentano vertiginosamente. Intanto il 20 aprile scorso la Commissione europea ha approvato la proposta di regolamento sull’AI (Intelligenza Artificiale), contenente procedure di valutazione di impatto e di certificazione per le applicazioni ad alto rischio, come gli algoritmi valutativi e quelli adoperati nel settore della giustizia.  Il libro bianco Giustizia 2030, dal canto suo, nel prospettare tutte le possibilità della giustizia digitale, riserva ampia attenzione al tema di intelligenza artificiale e uso di algoritmi nell’identificare mezzi e obiettivi della giustizia predittiva. Si intensificano, in quest’ottica, i progetti di ricerca, come quello avviato a Pisa dalla Scuola Superiore Sant’Anna, funzionale a creare una banca dati della giurisprudenza per valutare le chance di successo e i tempi di contenzioso. Tra gli entusiastici aedi di questa nuova frontiera e i diffidentissimi critici che invocano Sofocle e la Costituzione, poniamoci, socraticamente (ma anche vonnegutianamente), qualche domanda.

La prima afferisce al metodo: la giustizia predittiva è invocata a quale scopo? La risposta parrebbe, più che semplice, banale: velocizzare la giustizia, rendere il sistema più performante, più efficiente, a beneficio della (famigerata, perché a sua volta scarsamente definita) utenza. Declinata così, mi sembra che continuiamo imperterriti a parlare del fumo e non dell’arrosto. Il quale arrosto sta in un interrogativo ben diverso: posto che una risposta di giustizia deve attuarsi in un tempo ragionevole, in un certo contesto – poniamo l’Italia, anzi poniamo il Mezzogiorno d’Italia – secondo quali meccanismi e per quali bisogni fa formandosi la domanda di giustizia? A me pare che questo interrogativo resti ostinatamente inevaso: ma per incidere sui sistemi noi dobbiamo avere la possibilità di analizzare il dato da entrambi i lati, domanda e offerta. Allora forse gli algoritmi ci potrebbero aiutare a comprendere, per esempio, che impatto ha il numero di avvocati nella creazione di domanda di giustizia, oppure cosa comporta – in termini di costi per il sistema giustizia – un fenomeno epocale come quello del flusso incessante di migranti da un continente a un altro.

Una seconda domanda tra Socrate e Vonnegut è poi culturale: quando invochiamo o condanniamo l’algoritmo, sappiamo davvero di cosa stiamo parlando? Insomma, i giuristi – almeno in Italia – spesso fanno fatica con le scienze più o meno esatte. Una cosa è certa, però (la letteratura distopica lo insegna): l’algoritmo è un dispositivo tecnico strumentale a un esercizio di potere. Occorre capire chi lo forma, perché, secondo quali criteri: occorre cioè formarci ad apprendere la lettura del contenuto e del modo d’operare dell’algoritmo. Si tratta quindi di farci consapevoli della modificazione del paradigma di conoscenza in atto da tempo in ogni settore e che vuole attraversare anche la giustizia.

Terza e ultima questione: dal momento che l’algoritmo può servire a molte cose (prevenire i reati, orientando l’attività di indagine, valutare le prove, risolvere questioni interpretative delle norme, orientare i modi di risoluzione delle controversie civili alternativi alla sentenza), a me pare di poter individuarne tre utilità foriere di risultati potenzialmente fecondi. In primo luogo, forse potremmo affidare a un algoritmo – definito per legge del Parlamento – la scelta dei dirigenti degli uffici giudiziari (l’uso degli algoritmi nei concorsi pubblici, come si sa, è già una realtà effettiva, e il Consiglio di Stato ha fornito diverse indicazioni al riguardo). In secondo luogo, all’algoritmo potremmo chiedere di analizzare i flussi di domanda di giustizia al fine di ridisegnare la geografia giudiziaria di questo Paese e soprattutto dei Tribunali campani. In questi due casi, la pretesa neutralità dell’algoritmo potrebbe liberarci di due zavorre che opprimono la magistratura e il funzionamento della giustizia (con profili e problemi evidentemente diversi tra l’uno e l’altro aspetto).Infine, e quel che mi sembra più interessante, è l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per l’analisi delle prospettive di successo di un’azione giudiziaria civile che si voglia intentare, sistemi leggibili (questa è un po’ la ratio del progetto pisano, se ho ben capito) anche dal comune cittadino senza la necessaria intermediazione dell’avvocato. Questo percorso aprirebbe una – per così dire – maggiore consapevolezza democratica nella volontà di ricorrere ai Tribunali ovvero nella scelta di trovare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie. Non solo, l’elaborazione dei dati assicurata da sistemi di AI nel comparto giustizia aiuterebbe un istituto al quale credo molto e che sostengo da anni, prendendolo a prestito dalla riforma attuata presso la Corte di Strasburgo: quello del “giudice filtro” che stabilisce, anche sulla base dell’esistenza di consolidati orientamenti giurisprudenziali oppure di pacifiche applicazioni di norme di diritto positivo, se una causa è più o meno “sensata”, stabilendone anche la futura calendarizzazione nei mesi se non negli anni a venire.

In conclusione, se tutto non si riducesse a formulette di marketing e a target efficientisti, i temi dell’intelligenza artificiale e della giustizia predittiva potrebbero essere un campo di rinnovamento vasto e stimolante del sapere giuridico. Non voglio essere pessimista, ma lo “Zeitgeist” sembra soffiare verso una nuova corsa alla redazione di pagelline e premi a punti.