Un mese dopo l’assalto di Hamas che ferito e traumatizzato Israele, le truppe dello Stato ebraico sono nel cuore di Gaza. A confermarlo è stato Yaron Filkelman, comandante del fronte sud delle Israel defense forces. E tra bombardamenti aerei e avanzata via terra, le Tsahal stringono sempre di più il cerchio intorno ad Hamas puntando alla sua roccaforte.

Una guerra complessa e che ha il suo costo, come ha tenuto a precisare Filkelman. E sono questi due elementi a segnare la quotidianità del primo ministro Benjamin Netanyahu, che si deve confrontare con le pressioni interne e quelle internazionali. Sul primo fronte, molti osservatori ritengono ormai definitivamente tramontata la stella politica di “Bibi”. Già contestato nei mesi precedenti per la riforma della giustizia e per la politica del governo, dopo il brutale attacco terroristico di Hamas Netanyahu viene considerato anche il primo responsabile del grave fallimento nella sicurezza e nella gestione dei rapporti con la Striscia di Gaza durante questi anni. La guerra è un banco di prova decisivo: per Netanyahu l’ultima ancora di salvezza di una leadership in bilico. Ma ciò che trapela dai maggiori media israeliani è l’immagine di un premier a tempo.

E al termine di questa resa dei conti con Hamas, su cui ieri è tornato in conferenza stampa negando il cessate il fuoco senza liberazione degli ostaggi e dicendo che sono stati raggiunti dalle Idf luoghi impensabili, dovrà fare i conti anche con l’opinione pubblica. Una conferma è arrivata da Yaakov Amidror, un tempo fedelissimo del premier, e secondo il quale il governo dovrebbe indire le elezioni non appena finita l’operazione militare. Parole che dimostrano come in Israele la guerra non abbia cancellato le difficoltà del governo e che si allineano a quel sondaggio del quotidiano Maariv che ha rivelato che solo il 27 per cento degli israeliani ritiene Netanyahu ancora adatto a guidare il Paese, contro un 49 per cento che invece pensa sia il momento di Benny Gantz, ex generale, ex ministro, e soprattutto attuale membro del governo di emergenza ma che non lesina critiche anche aspre al premier e ai suoi maggiori alleati. La certificazione di questo malcontento che serpeggia tra gli elettori è arrivata anche dal modo in cui il resto del mondo si rapporta con il capo del governo: l’altra grande sfida di Bibi. A molti osservatori non è sfuggito che il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, nel suo ultimo viaggio in Israele abbia voluto incontrare sia Gantz sia l’altro leader di opposizione, Yair Lapid, che a differenza del primo non è entrato nel governo di emergenza. Per molti un segnale di come anche Washington voglia sondare il terreno per capire quale possa essere il successore dell’attuale primo ministro. E questo nonostante l’assoluto sostegno degli Usa alla causa israeliana.

Del resto, è noto che il presidente Joe Biden non sia particolarmente affine al premier dello Stato ebraico. E questo lo si è compreso anche dopo il viaggio in Israele del capo della Casa Bianca, dove ha manifestato completa vicinanza all’alleato ferito. L’amministrazione Usa preme da settimane su Netanyahu per evitare che la guerra si allarghi, per garantire la sicurezza e la liberazione degli ostaggi e per concedere “tregue umanitarie”. Ieri, il primo ministro ha aperto all’ipotesi di “piccole pause tattiche” per permettere l’arrivo di aiuti o per lasciare uscire gli ostaggi o gli stranieri. Tuttavia, lo stesso premier ha ribadito che i combattimenti non si fermeranno fino al raggiungimento dell’obiettivo finale, e cioè la totale cancellazione di Hamas dalla Striscia e la futura messa in sicurezza. Sicurezza che, a detta del premier, sarà responsabilità di Israele per un tempo indefinito, mentre per l’opposizione, a partire proprio da Lapid, dovrebbe essere dell’Autorità nazionale palestinese. Una linea, quella di Lapid, che contrasta in particolare con l’estrema destra israeliana, ma che non è invece molto diversa da quella tracciata da Blinken, che aveva parlato nei giorni prima del blitz in Medio Oriente di una possibile Anp “rivitalizzata” e responsabilizzata.

Per Netanyahu quella sarà una scelta fondamentale. Ma i dubbi sull’Autorità palestinese e sulle capacità di relazionarsi con Israele non sono pochi. Ieri sui media è circolata la notizia di un attentato contro il leader Abu Mazen: attacco di cui hanno parlato alcune emittenti turche e smentito dalle autorità palestinesi, ma che comunque è il sintomo di una certa instabilità interna. Inoltre, la Cisgiordania continua a essere al centro di forti tensioni tra palestinesi e Idf con attentati, arresti e uccisioni che non si fermano a un mese dall’inizio della guerra. E questo implica delle perplessità su un’Autorità debole e una leadership, quella di Abu Mazen, che non appare in grado di gestire un futuro complesso come quello che si aprirà una volta terminata la campagna militare israeliana. A questo proposito, le cancellerie mondiali già sono al lavoro sul dopoguerra, e non è un caso che ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani abbia fatto riferimento alla futura de-escalation e una forma di presenza internazionale simile a quella di Unifil in Libano. E il Dipartimento di Stato Usa ha nuovamente evidenziato la necessità che l’exclave resti in mano palestinese, contraddicendo proprio Netanyahu.

La discussione andrà avanti per molto tempo, e in attesa che la battaglia di Gaza volga al termine, continuano a preoccupare sia la condizione umanitaria di Gaza, sia gli altri fronti. Le Nazioni Unite hanno rilanciato la richiesta di una tregua umanitaria che dia respiro a una popolazione che, secondo le istituzioni controllate da Hamas, conta già 10mila morti (ma sono numeri che contrastano con quelli internazionali). Mentre ieri, dopo un nuovo lancio di razzi dal Libano contro il nord di Israele, sono intervenute ancora una volta le Idf con attacchi lungo tutto la “Blue Line”, in quella guerra latente ma logorante con Hezbollah e con le frange di Hamas nel Paese dei cedri.