Per il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, la guerra è “a uno stadio adeguato per prendere decisioni difficili, ma occorre ottenere l’approvazione dell’altra parte”. Il riferimento è alla sorte degli ostaggi da sei mesi ancora prigionieri di Hamas e ai negoziati in corso al Cairo. Le trattative appaiono complesse. E mentre le fonti egiziane fanno trapelare ottimismo, sia da parte israeliana che da parte palestinese affiorano dubbi. Difficile dire se queste fumate nere siano in realtà tattiche legate a un risultato che si spera possa essere raggiunto presto ma con un prezzo da pagare, in termini di immagine, non irrilevante. Oggi è attesa una riunione del gabinetto di sicurezza israeliano in cui si discuterà proprio dei colloqui avvenuti nella capitale egiziana. E la speranza, soprattutto dei familiari degli ostaggi, è quella che si arrivi a un accordo per la liberazione dei rapiti in cambio di una tregua.

Ieri, i parenti di cinque prigionieri di Hamas hanno incontrato Papa Francesco in Vaticano. Un incontro definito “molto emozionante”, in cui Ashley Waxman Bakshi, cugina di Agam Berger, ha raccontato alla stampa che il pontefice ha definito Hamas “il male” e di essere “in contatto con la chiesa cattolica di Gaza per gli ostaggi e gli aiuti umanitari, che lavora con i suoi canali per aiutarci con la liberazione dei nostri famigliari”. Mentre il padre di Omri Miran ha detto che il pontefice “ha promesso di fare tutto il possibile con i Paesi legati al Vaticano per portare a casa gli ostaggi, una specie di missione internazionale”. Il tema dei rapiti è stato al centro anche degli incontri romani del ministro degli Esteri Israel Katz, che dopo avere avuto una riunione con l’omologo Antonio Tajani, ha visto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il titolare della Difesa, Guido Crosetto. Secondo Axios, gli Stati Uniti avrebbero presentato una nuova proposta per un accordo tra Israele e Hamas. Per altri media, addirittura si ipotizza una data iniziale dopo la fine del Ramadan.

Il direttore della Cia, William Burns, avrebbe proposto un patto per il rilascio di 40 ostaggi detenuti a Gaza in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane. L’ipotesi non è completamente nuova, poiché circola già da settimane tra gli addetti ai lavori. E nonostante le differenze tra le parti, soprattutto sul il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, è possibile che le parole di Gallant – parallele alle ultime mosse nell’exclave palestinese – siano il preludio a un’intesa ritenuta difficile quanto necessaria. Le Israel defense forces, al momento, hanno confermato la decisione presa negli ultimi giorni di ritirare la maggior parte delle truppe di terra dal sud della Striscia.

Tuttavia, questa manovra non è letta come il preludio alla fine delle operazioni contro Hamas (ritenuta essenziale da Netanyahu e dai partiti di destra). Gallant ha fatto capire che il ritiro delle truppe da Khan Younis è prodromico a future operazioni più mirate nella zona di Rafah. Mentre il capo di stato maggiore delle Idf, Herzi Halevi, ha chiarito in conferenza stampa che l’operazione militare contro Hamas non è affatto vicina al suo completamento. “La guerra a Gaza continua e siamo lontani dal fermarci. Gli alti funzionari di Hamas sono ancora nascosti. Li raggiungeremo prima o poi. Stiamo facendo progressi, uccidendo sempre più terroristi e comandanti e distruggendo sempre più infrastrutture terroristiche” aveva assicurato il capo delle forze armate. A preoccupare sono anche gli altri fronti. Quello della Cisgiordania, dove ieri è esploso un bulldozer nel campo profughi di Balata e sono stati arrestati 23 palestinesi nel corso di raid a Hebron e Tulkarem.

Ma soprattutto il fronte nord, dove si attende una possibile fiammata nella logorante guerra tra Israele e la milizia di Hezbollah. Gli analisti concordano che il rischio di un conflitto aperto è reale, tra missili sciiti e rappresaglie israeliane nel Paese dei cedri. E mentre si attende il possibile attacco iraniano come risposta al raid contro il consolato di Teheran a Damasco (per cui Usa e Israele sono in massima allerta), lo scontro tra le Idf e il proxy iraniano in Libano è sempre più duro. Ieri notte, le forze israeliane hanno ucciso un alto comandante della forza Radwan, élite di Hezbollah. Si tratta di Ali Ahmed Hassin, e “come parte del suo ruolo, era responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di attacchi terroristici nell’area di Ramim Ridge contro il fronte interno israeliano”, hanno comunicato le Idf. Il raid chirurgico nel sud del Libano conferma come lo scontro sia ormai arrivato al livello di guardia. I militari israeliani hanno detto di avere completato “un’altra fase dei preparativi di guerra del Comando settentrionale, che riguardava l’aumento della capacità dei depositi operativi di emergenza per il reclutamento su larga scala delle forze Idf quando necessario”. E il comunicato delle Tsahal conferma che le truppe sono pronte per passare dalla fase difensiva a quella offensiva. In un’intervista al giornale arabo Al Sharq al Awsat, il presidente del parlamento libanese, Nabih Berri, ha detto che Israele sta facendo di tutto per “attirare il Libano in una guerra”.

Ma il timore di un’escalation incontrollata preoccupa anche la comunità internazionale. Dall’Italia, che ieri ha rilanciato le sue preoccupazioni nell’incontro tra Crosetto e Katz, fino alle Nazioni Unite, che ieri hanno di nuovo chiesto la fine degli scontri e “maggiore spazio alla diplomazia”.