Giorgia Meloni e il “doppio referendum”. La premier ha di fronte a sé due appuntamenti che sanno di prova del nove. Sul consenso personale della presidente del Consiglio e sulla tenuta del governo. Il primo test è sicuro ed è a stretto giro. Si tratta delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno. Con Meloni candidata capolista in tutti i collegi. Inevitabilmente un “referendum” sulla prima parte di questa legislatura. Un’elezione di metà mandato che dirà molto anche delle prossime mosse della premier. Da qui le forche caudine della seconda partita. Quella più complicata. La riforma costituzionale del premierato che quasi certamente passerà attraverso il responso di un voto popolare. Una consultazione piena di trappole. Tanto che Meloni, martedì da Milano, ha ventilato l’ipotesi di uno slittamento del referendum al 2028. Nella prossima legislatura.

Tra arroganza e prudenza

A Palazzo Chigi, il cerchio magico dei meloniani oscilla da settimane tra l’arroganza e la prudenza. Anche se, nelle ultime ore, in Fratelli d’Italia sembrano andarci con i piedi di piombo. A partire proprio dalla corsa delle europee. L’appuntamento, teoricamente, meno pericoloso. Qui il problema è quello di riuscire a stravincere. Il timore è che qualsiasi risultato che non sia un plebiscito possa mostrare una presunta debolezza del capo del governo. D’altronde è stata Meloni stessa a decidere di strafare. Lo “scrivete Giorgia” lanciato nell’agone della politica dal palco della convention di Pescara è una scommessa in piena regola. Un modo per alzare l’asticella delle aspettative.

Segnali di nervosismo

La richiesta di un plebiscito. Così, mentre Meloni ripete che il voto sul premierato “non sarà un referendum su di me”, sta trasformando le elezioni europee in un sì o no alla sua persona. Piccoli segnali di nervosismo. Fratelli d’Italia ha pronto un sondaggio interno attraverso cui tastare il polso al proprio elettorato. Tra le domande ce n’è una, che lascia intravedere qualche dubbio sulla bontà della scelta di personalizzare così tanto il voto di giugno. “Sei d’accordo con la candidatura di Giorgia Meloni capolista in tutti i collegi?”, si chiede alla base di FdI. Ovviamente è scontato che la maggioranza degli elettori meloniani risponderà di sì. Ma anche qui ciò che conta sono le proporzioni.

I sondaggi in leggero calo

Già il fatto di sentire la necessità di interrogare i militanti e i simpatizzanti è sintomatico di un’indecisione. A ciò si aggiunge il responso dell’ultimo sondaggio di Quorum/YouTrend. La rilevazione vede Fratelli d’Italia in calo di mezzo punto percentuale, al 26,8%. Sotto al 27%. Dal canto suo Meloni, con la sua candidatura in grande stile, sperava di trainare FdI vicino al 28%, con proiezione sul sogno del 30%. La premier vincerà, ma senza stravincere. Perciò la presidente del Consiglio, rispondendo a Giuseppe Conte, che aveva parlato di “candidature truffa” dei leader, tra le righe ridimensiona le sue ambizioni: “La mia non è una candidatura truffa, l’obiettivo è confermare il risultato delle elezioni politiche”. Solo che due anni fa Fratelli d’Italia si attestò poco sopra il 26%. Dunque, Meloni non cerca più lo sprint. Non vede più il plebiscito.

Premierato “allarmante”

A maggior ragione, la prudenza è d’obbligo sul referendum costituzionale. La premier, negli ultimi giorni, ha parzialmente smorzato i toni. Affermando di voler cercare fino all’ultimo il dialogo con il centrosinistra. Ed è scattato l’allarme dopo le parole della senatrice a vita Liliana Segre. Segre ha parlato del premierato come di una proposta “allarmante”. Poi ha messo in guardia sui rischi di una sorta di deriva autocratica. Con un presidente della Repubblica ridotto a poco più di un notaio e un Parlamento in balìa di un potere esecutivo strabordante. In FdI leggono la presa di posizione come un segnale da parte del Quirinale. Meloni teme che il perimetro del “no” al premierato possa diventare molto più ampio rispetto a quello dell’opposizione parlamentare al governo di destra-centro. A Palazzo Chigi sono preoccupati da un presunto soft power del capo dello Stato, in grado di indirizzare parte dell’opinione pubblica contro la riforma costituzionale. “Non è un referendum su di me, né su Mattarella”, ha infatti detto Meloni. Come a scacciare la personalizzazione del probabile voto sul premierato. Quindi lo scenario di un referendum nel 2028. A legislatura terminata. Forse con un nuovo premier. O forse no. Sicuramente durante la fase finale dell’ultimo settennato di Sergio Mattarella.

Intanto, mentre prosegue la discussione generale in Senato sul premierato, tutte le opposizioni si saldano contro le riforme di Meloni. Vanno all’attacco Italia Viva e Azione. Il Pd e il M5S con Alleanza Verdi e Sinistra. “Mentre il centrodestra è per il cambiamento di un sistema istituzionale ormai inadeguato a rispondere ai bisogni della società, l’opposizione conferma la sua natura reazionaria, con la scusa di una inesistente deriva autoritaria”, replica un big di FdI come Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera dei deputati. Meloni serra i ranghi in vista del doppio referendum.