Il bambino avrà sei o sette anni, indossa maglia e pantaloni a righe bianche e nere, ha i capelli molto corti e un polso stretto dalle manette che lo tengono bloccato ad una grigliata in ferro. Deve apparire come un detenuto e non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per capirlo. Deve imitare il padre che si trova in carcere, e questo è un altro dettaglio che si intuisce facilmente perché la foto è pubblicata su una pagina social inaugurata dalla madre del piccolo e dedicata alle “mogli dei detenuti”. Quello che si fa più fatica a capire è il motivo di tutto questo, il perché un bambino debba essere protagonista di un set fotografico simile.

Si fa un gran parlare di disagio giovanile, di esempio da dare ai bambini, di povertà educativa, di periferie che avrebbero bisogno di più spazi e di più iniziative per cittadini di tutte le età, e si finisce poi per imbattersi in una sub-cultura che diventa terreno fertile per la delinquenza spicciola e per le passerelle della politica. Non arriva mai uno scatto reale, concreto, utile per la città e per i suoi cittadini, e soprattutto duraturo. «Proprio nel giorno in cui la Direzione investigativa antimafia pubblica la relazione semestrale e viene sottolineata la svolta social della malavita organizzata che utilizza profili social per diffondere anche messaggi, da Tik Tok emerge il profilo della moglie di un personaggio inserito in un clan dell’area est di Napoli», racconta Severino Nappi, consigliere regionale e coordinatore della città metropolitana di Napoli per la Lega. «La donna dà il benvenuto ai follower “nel circo delle mogli dei detenuti” e arriva perfino a postare la foto del figlio ammanettato a una grata. Il gesto appare come un chiaro tentativo di emulazione nei confronti del genitore recluso».

Di qui la decisione di Nappi di segnalare l’episodio: «L’ho già fatto quando di recente mi sono imbattuto nell’album delle figurine dei clan». C’è una coincidenza temporale tra il caso del bambino in manette sui social e la presentazione della relazione Dia che riporta il discorso sul fattore tempo. Quanto è utile essere tempestivi in certe dinamiche che avvengono a Napoli? «La fase della ricostruzione storica, propria di un resoconto come nel caso della relazione semestrale della Dia – replica Nappi – è preziosa perché fornisce una mappatura precisa dell’azione dei clan sui territori. Ma è evidente che nella lotta alla criminalità organizzata è fondamentale il tempismo, per tale motivo lo “storico” va accompagnato necessariamente da un piano che dia costantemente il polso della situazione, soprattutto per quel che riguarda la diffusione di messaggi attraverso i social network. Questi attualmente rappresentano i mezzi più veloci a disposizione dei clan per esibire la propria forza, fare proseliti, affrontare gli avversari e attestare il proprio potere mediatico. Parliamo di mezzi che sono utilizzati in particolare dai giovani, i quali restano sempre le prede più facili prede, soprattutto in contesti di degrado sociale ed economico. E dove lo Stato non fa sentire la sua presenza». Già lo Stato. Nelle ultime settimane a Napoli è stato un termine abusato: se n’è parlato in occasione di passerelle politiche, proclami, messaggi di solidarietà al parroco, al giornalista o al capo dei vigili urbani minacciato dalla camorra nei quartieri di periferia. Quello Stato che non c’è e invece dovrebbe esserci. Sempre.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).