Katharina Miroslawa si è sempre professata innocente. Eppure si è fatta quasi 13 anni di carcere. Condannata come mandante dell’omicidio del suo amante, l’uomo che diceva di amare e con il quale avrebbe voluto vivere: l’imprenditore Carlo Mazza, 50enne, freddato con due colpi di pistola nel febbraio del 1986. “Katharina è diventata un po’ la leggenda di se stessa”, dice Franca Leosini che su questo caso intricato, complicato incentrerà la seconda puntata della sua trasmissione in onda stasera su Rai3 Che fine ha fatto Baby Jane. “Vedremo che donna è oggi, come convive con il suo passato. Il mio atteggiamento, doveroso, è sempre lo stesso: non essere mai partigiana, non accusare né assolvere, ma cercare di capire”, ha anticipato Leosini che aveva incontrato Miroslawa nel gennaio 2001 a Venezia, nel carcere La Giudecca, per il suo programma Storie Maledette.

Miroslava aveva 25 anni, nei primi anni ’80, quando arrivò a Parma dalla Polonia. Con il marito Witold Kielbasinski e il figlio Niki. Era bellissima, un sogno per tutti gli uomini che frequentavano la zona e certo locali. Per guadagnarsi da vivere la coppia portava in giro uno spettacolino sexy. Lei faceva la ballerina e la spogliarellista. Carlo Mazza, imprenditore, dirigente di 50 anni di una fabbrica di acciaio, sposato e con figli adolescenti, riuscì a conquistarla. Divenne il suo amante. Le passava due milioni di lire al mese, le procurò un appartamento e la portò a lasciare quel lavoro. Una passione travolgente.

L’omicidio di Carlo Mazza

La notte tra l’8 e il 9 febbraio 1986 l’uomo venne ucciso, freddato a colpi di pistola. Due proiettili, che trapassarono il cranio, pistola calibro 6.35. Il “Giallo di Carnevale” titolavano i giornali. A ritrovare il corpo dell’uomo, nell’auto ricoperta di neve nel centro di Parma, il figlio dell’imprenditore. Mazza all’epoca aveva 52 anni. Aveva sottoscritto una polizza assicurativa sulla sua vita con un premio di un miliardo di lire a favore dell’ex ballerina. E quindi i sospetti si concentrarono subito sulla donna. E sul marito Kielbasinski, che nel frattempo aveva comunque lasciato.

I due avevano entrambi un alibi: si trovavano all’estero. “Un giorno gli dissi che sarei andata in vacanza con Carlo alle Mauritius, e lì sbagliai – raccontò Miroslawa al Corriere nel 2019 riferendosi all’ex marito -. Lui sapeva della nostra relazione e in un momento di rabbia mi aveva anche detto che se fosse andata avanti avrebbe ucciso me e lui, ma non avevo dato molto peso a quelle parole”. La sentenza in primo grado del primo dei processi fu di assoluzione per entrambi, per insufficienza di prove. Era il 15 maggio del 1987, solo l’inizio di un lungo iter giudiziario.

Il processo e la condanna

Miroslawa a quel punto provò a riscuotere la polizza: l’assicurazione le propose però uno “sconto” per non indagare, da un miliardo di lire a 600 milioni. E la donna rifiutò: sarebbe stata per lei un’ammissione di responsabilità. La svolta: le indagini scoprirono intanto che il 7 febbraio del 1986 suo fratello Zbigniew Drozdzik e un amico di origini greche, Dimosthenes Dimopoulos, avevano noleggiato un’automobile. Dal contachilometri risultava una distanza percorsa equivalente al tragitto da Monaco a Parma, e da Parma fino ad Amburgo, dove la vettura venne riconsegnata.

Kielbasinski fu condannato a 24 anni, Miroslawa, Drozdzik e Dimopoulos a 21 anni: il marito e il fratello della donna furono riconosciuti come esecutori materiali, la donna mandante, il greco come complice. Era il maggio 1991, e nell’inverno successivo la sentenza venne annullata in Cassazione. Del 1993 la sentenza definitiva: condanne tutte confermate tranne quella di Dimopoulos, assolto con formula piena. Kielbanski e Miroslawa si resero latitanti. La donna in Austria, per sette anni, dove trovò un nuovo compagno. Fu arrestata a Vienna nel febbraio 2000 e trasferita nel carcere femminile della Giudecca. Ha scontato, grazie all’indulto, 13 anni dei 21 previsti.

Il secondo tempo

Kielbasinski prima si addossò la colpa come mandante, descrivendo il “greco” come esecutore, e quindi in un memoriale scrisse di aver ucciso lui Mazza per “gelosia, non per denaro”. Troppo tardi per scagionare la sua ex compagna. Miroslawa ha fatto quasi 13 anni di carcere, dal 2013 è libera e continua a proclamarsi innocente. Vive a Vienna, con il compagno Karl, ha 59 anni, si occupa di informatica e vende vini italiani. Ha dovuto reinventarsi una vita: è il suo secondo tempo. “Sono stata una vigliacca – ha detto in una lunga intervista a Sette de Il Corriere di un paio di anni fa – nonostante i dubbi, non ho mai voluto sapere cosa successe. Non l’ho mai saputo fino a quando Witold ha confessato, ma ormai era troppo tardi e io ero già stata condannata definitivamente”.

Ha mollato, rinunciato a provare la sua innocenza. Chi sapeva tutto è morto, come l’avvocato Ugolini che difendeva lei e Witold. E il “greco” non parla. “Le ferite rimangono ma oggi ho ritrovato una certa serenità e posso parlare del delitto senza chiedere nulla a nessuno perché ormai ho rinunciato a cercare le prove della mia innocenza. Servirebbe troppo tempo e io non ne ho e, soprattutto, voglio guardare avanti, voglio vivere, dopo aver perso tanti anni inutilmente, fra ricerche, processi, galera..”.

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Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.