Il cortometraggio
Il cortometraggio di Muccino per rompere gli stereotipi, ha prodotto l’eterogenesi dei fini…
La Calabria è in rivolta. Nessuno degli innumerevoli e atavici problemi della Regione è causa del fermento: politici, intellettuali, giornalisti, buona parte dei calabresi, hanno dichiarato guerra al regista Gabriele Muccino, ritenuto responsabile di lesa calabresità, poiché, realizzando un cortometraggio commissionatogli dalla Regione anziché migliorarne l’immagine l’ha ulteriormente incrinata.
A marzo, la presidente Jole Santelli, purtroppo morta dieci giorni fa, aveva dichiarato che uno dei punti più importanti del proprio programma sarebbe stato quello di far sparire gli stereotipi, le rappresentazioni fasulle e folkloristiche, che gravano sulla Calabria, e ne impediscono lo sviluppo economico, in prospettiva soprattutto turistica. Una nuova narrazione della Calabria, la mission: per raccontare una terra diversa da quella infissa nell’immaginario collettivo. Si puntava molto sul messaggio filmico, e molto anche in termini economici si era speso sull’opera di Muccino: un corto che infondesse curiosità, voglia di conoscere. E il corto è arrivato, il 20 ottobre è stato presentato in prima mondiale al festival del cinema di Roma. Il giorno dopo è stato diffuso sul web da un assessore della Giunta calabrese.
Nel passare di poche ore si è scatenata una schiera enorme, e trasversale, di critiche. Veramente in pochi hanno provato a difendere l’opera di Muccino. 1.700.000 euro per 6 minuti di girato, quanto mediamente si spende in Italia per un film, quanto molti registi di qualità vorrebbero avere per realizzare un lungometraggio, magari di successo. E a guardarlo, il corto di Muccino, interpretato da Raoul Bova e Rocio Munoz Morales, effettivamente, per chi la Calabria la conosce si resta spaesati, per chi non la conosce si vedrà davanti il cliché di una terra arretrata in cui l’asino sia ancora un mezzo di locomozione, tutti siano impegnati a giocare a carte o a oziare, indossando vestiti anni cinquanta e calcando sul capo, in piena estate, coppole di lana. E tutti siano onorati della visita della bella straniera che l’oriundo porta a casa per mostrarle quanto bella sia la sua terra. In un trionfo di colori artefatti, clementine di plastica, lo stereotipo invece di sparire si materializza, il luogo comune imperversa. La Calabria ne esce avvilita, al di là delle intenzioni di chi ha costruito il corto. Soprattutto, l’effetto è controproducente rispetto al proposito del committente: eliminare lo stereotipo. 1.700.000 euro spesi, secondo i calabresi, male. L’impressione della beffa. La sensazione di essere trattati come bravi selvaggi a cui si concedano le carezze.
E i calabresi è vero, sono permalosi, esagerano spesso con orgogli stupidi. Però, anche se non passa nel racconto attuale che si fa della Calabria, rinchiuso, spesso per colpa dei calabresi stessi, fra la cronaca nera e la nera cronaca. La Calabria è pur sempre figlia di una storia millenaria, di una cultura antica: per quanto sepolte, annacquate, non è il caso di trattare i calabresi come un popolo bambino. Un minimo di cautela. Solo un minimo. Che magari il problema della Calabria fosse davvero, solo, un problema di immagine. La Calabria ha problemi reali e nemmeno se venissero Coppola o Scorsese a girare spot, i problemi sarebbero risolti. Però anche il racconto sbagliato è un problema, e se si è pagati per aggiustare il tiro ai luoghi comuni, se non ci si impegna al massimo, dopo, ci si può trovare contro 2.000.000 di calabresi, che avranno molti difetti, come tutti gli abitanti del mondo, ma non sono.
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