Una immagine, in particolare, mi ha accompagnato in questa notte del ritorno, quella di un uomo in attesa della partenza della moglie e dei suoi due figli. Accanto e in attesa, impegnato ad aiutare lei mentre caricava i van della missione. In questi giorni ho dormito poco, l’allarme antiaereo della notte ci ha spinti più volte nello scantinato dell’orfanotrofio che ci ha ospitato durante la missione a Leopoli. Non vedo l’ora di partire e tornare in Italia, portare via queste persone, riabbracciare i miei affetti. Bisogna fare le liste, stamparle, preparare le carte per entrare in Polonia, distribuire le persone nei nostri van. Elisa, Sara e Denis compilano i fogli excel con i dati anagrafici di tutti i passeggeri per rendere più veloce la sosta alla frontiera, per fare ordine. Lì fuori il padre gioca con i bambini, la moglie assiste.

Faccio avanti e indietro, dall’atrio dell’istituto al giardino dove i pullmini iniziano a riempirsi di quanto necessario al lungo viaggio: saranno 30 ore fino all’ultima tappa, Napoli, dove gli straordinari militanti napoletani della missione ci aspettano per far fare i tamponi ai rifugiati e indirizzarli verso le case che li ospiteranno. Mi tormenta quella immagine, continua a tornare nella mia mente: l’espressione congelata di lui mentre gioca con i figli che sta per lasciare, mentre si dice qualcosa con la moglie che ha a che fare con la loro intimità. Mi tormenta il loro abbraccio prima della partenza. Non ha voluto piangere, è rimasto al confine, ma il volto di ghiaccio lo tradiva. Avrebbe voluto restituire la normalità di un arrivederci, ma non ce l’ha fatta. Penso.

Anche questa è la guerra, famiglie spaccate: chi parte verso una promessa di rifugio e chi resta a combattere. Non si sono potuti dire le parole di un nuovo incontro, perché forse non ci sarà. E loro, tutti loro, compresi i bambini, lo sanno. Lo abbiamo toccato con mano, insieme alle immagini di un Paese che è precipitato nel terrore e nella mobilitazione militare. A Leopoli tutto racconta dello stravolgimento che il conflitto ha portato nelle vite delle persone, anche se il fronte “vero” è lontano e i missili cadono ancora a qualche chilometro di distanza, facendo intravedere il fumo degli attacchi all’orizzonte.

I palazzi sensibili sono protetti da sacchetti di sabbia e blocchi di cemento armato a sorreggerli, i bunker sempre aperti in caso di allarme aereo, la vita scorre apparentemente normale fino a quando la sirena non ti precipita di nuovo nella guerra che avanza fino a lì, nell’Occidente del Paese. 177 persone portate in Italia grazie alla missione Safe passage di Mediterranea. Da Casetta Rossa siamo partiti in sette. Sei furgoni e tre pullman stipati di farmaci, medicinali, vestiti e coperte, cibo provenienti da Napoli, Venezia, Mogliano, Roma, Bologna. È la prima missione di terra di Mediterranea Saving Humans, coordinata dal nostro capo missione Beppe Caccia. 30 persone di equipaggio, tra cui medici e due infermieri. V

an e pullman i mezzi di salvataggio della pratica della diplomazia dal basso, come si sarebbe detto e come è urgente tornare a dire, quando le parole della diplomazia ufficiale si piegano alla retorica bellicista. Alla stazione di Leopoli entriamo definitivamente nella tragedia che ha sconvolto il Paese: il piazzale antistante è un enorme accampamento dedicato all’assistenza di chi fugge dall’est del Paese. Decine di tendoni, migliaia di persone che escono dai treni con valigie, zaini, buste gonfie di vestiti e cibo, per cercare un passaggio oltre confine, con i pullman che aspettano fuori per andare lontano, o da amici e parenti quando è possibile.

Una immagine apocalittica che aumenta di intensità quando suona la sirena dell’allarme antiaereo. Persone che fuggono, prevalentemente donne e bambini, e persone che restano, giovani volontari provenienti da tutto il Paese che decidono di restare per assistere i profughi, per assicurare in quelle tende visite mediche, pasti caldi, orientamento per lasciare il paese. Quando gli diciamo che siamo lì per portare via le persone dalla guerra, una ragazza volontaria della Croce Rossa si apre in un sorriso: “Siamo dalla stessa parte allora!”. Viene da una zona colpita dall’invasione russa eppure ha deciso di restare e prestare soccorso. È una ragazza che ci somiglia, come ci somigliano le migliaia di persone in fuga, è la raffigurazione di un Occidente che sta diventando profugo: rifugiati con i nostri stessi volti, nostri i modelli e gli stili di vita, che ora si trovano precipitati nell’incubo dei bombardamenti nelle loro vite.

Gli diciamo della nostra impotenza e della nostra volontà, dell’idea di aprire una breccia, di portare in quella devastazione l’altra parte dell’Europa per provare a trovare una chiave, fatta dei nostri corpi e non delle nostre armi. Lei si ferma a pensarci, pesa la risposta, arriccia soltanto una parte della bocca verso una smorfia di sorriso, poi dice: “Tutto quello che serve a fermare tutto questo va bene”. Il giorno della partenza sta quasi per consumarsi, dobbiamo partire. Le nostre compagne di viaggio sono donne, mamme, zie, nonne, maestre e i loro bambini, e durante il percorso infinito e sfiancante verso l’Italia non ci hanno mai chiesto nulla. Né cibo, né una sosta per prendere aria. Non hanno chiesto nemmeno una volta quanto mancasse all’arrivo. Hanno accettato ogni dono e ogni offerta con una gratitudine stanca e silenziosa. Anche i bambini hanno preso i peluche e le bolle di sapone con sorrisi spenti e spaesati, eppure potenti. Mai, nemmeno una volta, nelle trenta ore di viaggio ininterrotte, hanno chiesto qualcosa per sé…

Mi chiedo perché si smetta di chiedere, di desiderare e di pretendere. Come se essere fuori da quell’incubo quasi bastasse, quando non dovrebbe bastare affatto. Perché la guerra è questo, è qualcosa che uccide le speranze e i sogni, insieme ai corpi delle persone mandate a combattere in prima linea. Di fronte a questo noi, che torniamo alle nostre case, che veniamo accolti con affetto e con orgoglio, noi testimoni di questo dolore, dobbiamo fare di tutto per ricordare e combattere ancora e sempre, tenendo sempre lo sguardo fisso all’altezza di altri occhi. Degli occhi di chi fugge dalle guerre. Perché, in questi momenti drammatici, assistere allo scontro politico che usa i linguaggi della morte e della guerra, restituisce l’immagine complessiva della politica del nostro paese, lontana dalle persone reali, distante dalla narrazione interna alla società, a quella che si danno, perché vissuta, gli uomini e le donne in carne e ossa.

Qui, qualcuno, deve imporre, con grande forza e con urgenza, le parole e le azioni della de-escalation, non della rincorsa all’odio e alla semplificazione mostrificata del nemico. A morire sul campo sono uomini, donne e bambini, a pagare i costi della guerra, soprattutto gli ultimi, quelli che vengono imbottiti di ideologia e armi, per massacrare i propri simili. Bisogna riscoprire e mettere al centro questo “fuoco”, quello di chi paga la guerra, mentre ora a fare le parole grosse e a muovere le pedine delle vite altrui, sono gli interessi di chi ingrossa finanze e interessi col riarmo e la guerra. Invadere l’Ucraina e la Russia con questa narrazione, col racconto e il vissuto dei profughi, dei senza casa, degli orfani, delle vite spezzate dalla morte, delle conseguenze materiali e spirituali della guerra. Invadere l’Ucraina, come dice Luca Casarini, con una grande missione umanitaria e di diplomazia dal basso fatta dei nostri corpi, per raggiungere quelli, nostri simili, che sono rimasti qui sul campo a soffrire, per sopperire alla stupidità e alla pochezza morale di chi soffia sul fuoco del conflitto.