Oggigiorno tutti parlano di intelligenza artificiale. Di come cambierà la nostra società, le nostre relazioni e il mondo del lavoro. Ci si divide tra catastrofisti che vedono in questi nuovi sviluppi tecnologici una minaccia per l’essere umano e l’intera umanità e ottimisti: l’intelligenza artificiale come grande opportunità. Qui vogliamo analizzare quale impatto potrebbe avere sul mondo del lavoro. Ciò su cui ci si concentra purtroppo è proprio questo mezzo esterno messo a nostra disposizione dalle nostre invenzioni tecnologiche.

Siamo sempre stati esseri tecno-umano. La tecnologia è parte del nostro essere, è un nostro modo naturale di abitare il mondo, di farne esperienza. Inizialmente aveva un fine legato alla nostra sopravvivenza, si pensi alle lance per cacciare, oggigiorno non ha più solo questo fine ma, ad essa, ha sempre più uno scopo esistenziale. Mettere al centro della riflessione uno strumento rischia però di farci perdere il focus sul tema. Il nucleo della questione, infatti, siamo noi. Tanti intellettuali continuano a riempirsi la bocca con la human-centric technology, ma se non sappiamo più cosa significa essere umani come facciamo a concepire una tecnologia umano-centrica? Forse prima di parlare di tecnologia umano-centrica dovremmo parlare di persone umano-centriche. Qui subentra la riflessione sulla tecnologia e il mondo del lavoro. Il lavoro è anch’esso un mezzo per la sussistenza e l’espansione del senso del singolo e anche della collettività.

Per comprendere come poter vivere appieno questa rivoluzione dovremmo forse iniziare a riflettere, anche a livello europeo, su cosa intendiamo oggigiorno per essere umano. Più che focalizzarci sulle ultime tecnologie, che sono solo una parte del nostro essere umani, dovremmo andare all’essenza. L’essere umano è fatto per il lavoro o il lavoro è fatto per l’essere umano? Forse giace in questa domanda la riflessione che bisogna avviare. Il tema del lavoro è analizzato sotto vari punti di vista, non solo legati allo sviluppo tecnologico: si discute di settimana corta, dell’AI che farà scomparire tanti mestieri, della stessa AI che aumenterà il fatturato delle aziende rendendole più efficienti, di come regolamentare lo smartworking e di molto altro. Il punto chiave è tornare però all’ontologia. Il lavoro, così come la tecnologia, sono proiezioni dell’essere umano: non dipendono da fattori esterni, ma da noi stessi, da come immaginiamo la realtà.

Per togliersi dall’impaccio, alcuni pensatori, parlano di un nuovo umanesimo. Io penso che l’umanesimo non sia mai finito e forse mai iniziato, preferisco parlare in questo senso di umanesimo perenne: l’emergere continuo dell’essere attraverso l’essere-umani. Il problema non è la tecnologia, ma come ci interpretiamo nel presente del futuro. L’UE ha l’occasione di rimodulare le politiche legate al mondo del lavoro usando questa prospettiva oppure vedendo questi fenomeni tecnologici ed evolutivi del mondo del lavoro come esterni a noi. Sono dinamiche interne esteriorizzate. Solo a partire da questa consapevolezza potremo elaborare per l’UE diritti sociali che diano forma al ciò che già siamo. Abbandonando lo strutturalismo e la resilienza, ormai concetti appartenenti al passato, è necessario vivere e regolamentare nella de-silienza: lasciar andare per far emergere l’essere. Il rischio della visione opposta, quella di vedere la tecnologia e il mondo del lavoro come qualcosa a noi esterno, eteronomo, è di trovarci improvvisamente in una Matrix da noi creata. Come nel film potremmo risvegliarci in una umanità dominata dalle macchine.

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Professore universitario, romano, classe 1984. È laureato in Giurisprudenza ed è dottore di ricerca in filosofia del diritto, politica e morale. Ha lavorato per l’UE e per lo European Patent Office. Attualmente svolge attività di consulenza come Policy Officer per le policies europee. Appassionato di filosofia, cerca, nei suoi scritti, di ridare un respiro esistenziale alla quotidianità e alle sfide politiche