Chi ha visto il video integrale – il clean, in gergo tecnico – del massacro dei terroristi di Hamas del 7 ottobre, deve riposizionare l’asticella dell’orrore. Mai si era raggiunto, in nessun film horror, la stessa acme di crudeltà e disumanità. Lo stesso disprezzo per la vita altrui e in fin dei conti, per la vita in sé. Mai si era raggiunto, malgrado il cinema abbia provato a farci gli anticorpi. Tra il 1930 e il 2022 sono state girate 495 pellicole che si cimentano sul tema del Male Assoluto. Dall’Olocausto ai grandi genocidi e massacri di massa, ogni anno sono stati girati più o meno cinque film che indagano il lato oscuro dell’umanità. Come se guardare l’orrore, scrutare il male possa vaccinarci, o perlomeno difenderci. Pia illusione: abbiamo visto tanto cinema, ma la realtà a cui assistiamo – dal massacro di Bucha a quello del kibbutz di Be’eri – supera ogni volta la fiction.

E tuttavia il male affascina. Il male vende. Al cinema come sui libri. Quelli dedicati a Hitler in tutto il mondo sono oltre diecimila. Anni fa, quando la CBS annunciò di voler produrre un film sugli anni della sua gioventù, si sollevò un coro di proteste quasi unanime, riassumibili nella domanda: «Sappiamo chi è e sappiamo che cosa ha combinato, cos’altro c’è da sapere?». Eppure il male vende. Sempre. Declinato in tutte le vicende storiche più oscure dell’ultimo secolo. Si occupa di recensirli, in una rassegna originale e coltissima, Giuseppe Mele. Il suo libro «Il male assoluto sullo schermo» è già un piccolo cult: si addentra in un viaggio attraverso 495 film, spaziando dalle epoche delle censure preventive (quando Capra, Resnais e persino il diario di Anna Frank facevano scalpore), fino all’era della rinascita cinematografica: tra il processo Eichmann e Schlinder’s List, tra Lanzmann e Glassman, fino ad Holland e Loznitsa. Mele ci guida in un vero e proprio tour de force attraverso le atrocità schermiche.

Il libro esplora l’approccio variegato alla rappresentazione del dolore e della ferocia organizzata. Un itinerario che dà conto di chi ha superato i limiti dell’accettabilità, con o senza rielaborazione, con o senza comprensione, con o senza immedesimazione. Dai docufilm epici alle censure e alle cacce ai nemici, che hanno avuto inizio con Captain America e continuano con l’inimitabile Tarantino, fino alle proposte che incrociano più sentimenti, che hanno provato a trasformar la rabbia in ironia: da Chaplin, Lubitsch, Brooks, Castellano & Pipolo, Benigni, Mihaileanu, fino ai Simpson,ai Griffin, alle parodie infinite su YouTube.

Ridere del male rischia di diventare uno specchio per il male che ride più forte, come dimostra l’incredibile opera buffa nazista di Terezin. Il riso ci trascina nel grottesco e nell’eccesso della Naziexploitation di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, fino ai pessimi horror di zombie e mostri dei videogames. Con effetti «culturalizzati », come diceva Umberto Eco, sempre diversi. Sempre più sfumati, da lenta assuefazione. Il cinema detiene la memoria, ma non può cancellare del tutto il male, né lo può ridurre troppo: rischierebbe il sacrificio del suo mito della vittoria. La resistenza di certe epiche belliciste è pervasiva in ogni saga, dal Trono di Spade agli Hobbit, fino a Star Wars.

E non è tutto: lo sguardo retroattivo della globalizzazione ci avvicina ad altri olocausti, come l’Holodomor, la Gulagexploitation, il Male islamico (o “Islamale”, come lo chiamano coloro che apprezzano un buon gioco di parole), il male climatico e i genocidi asiatici. Anche il male non è più soltanto bianco ed europeo, e l’Occidente perde il monopolio del controllo sul suo significato. A titolo di esempio, riflette Mele nel suo volume, per le prime tre cine-industrie mondiali, Bollywood, Nollywood (l’industria cinematografica nigeriana, terza al mondo) e la Cina, la Shoah sembra essere un dettaglio insignificante, mentre nel mondo islamico è addirittura valutata positivamente.

Dopo quasi un secolo di interpretazioni, esigenze miste di spettacolo, botteghino e ricerca storica, quel viaggio da fermi che facciamo al cinema sembra condurci verso rappresentazioni sempre più bizzarre del male assoluto, correndo il rischio che il concetto stesso finisca per svanire nella nebbia della nostra comprensione.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.