E se l'eroe fosse un killer e il mostro una vittima?
Il Minotauro di Dürrenmatt, una ballata che rovescia gli archetipi
Una volta uno dei miei studenti arabi si fece tatuare sul braccio la testa di un toro: avrei potuto raccontargli la storia del minotauro, rinchiuso da Minosse nel labirinto di Cnosso, ma sarebbe stato troppo lungo e fuorviante rispetto al risultato che con quel gesto lui evidentemente si prefiggeva: mostrare la sua forza, a stento trattenuta, la stessa in grado di spingerlo, qualche anno prima, a oltrepassare le colonne d’Ercole poste ai lati dello stretto di Gibilterra per raggiungere l’Europa, studiare, imparare la nostra lingua, trovare un lavoro, farsi una famiglia. Come spiegargli che dietro ogni volontà di potenza si nasconde sempre il timore della morte e niente e nessuno potrà mai sottrarci alle angherie e alle miserie quotidiane? Meglio lasciare che l’istinto trovi da solo i suoi canali prima di sfogo, poi di ravvedimento.
È un ricordo che mi è tornato in mente dopo aver riletto Minotauro, pubblicato in forma di ballata nel 1985 da Friedrich Dürrenmatt e appena riproposto da Adelphi, con illustrazioni originali dell’autore, testo tedesco a fronte, nella traduzione di Donata Berra. Secondo il mito greco questo mostro, oggi particolarmente attivo negli schermi dei videogiochi, che Dante mise a guardia del cerchio dei violenti nel XII canto dell’Inferno, possedeva il corpo di un uomo e la testa di un toro. La madre, Pasifae, aveva ceduto alla lussuria non resistendo alle lusinghe del toro di Creta, fino al punto di arrivare a nascondersi nel ventre di una vacca di legno pur di congiungersi con lui. Il frutto, tragicamente incolpevole, di tale insana passione aveva quindi subìto le terribili conseguenze del fato sperimentando su se stesso una raccapricciante doppia natura. Eccolo lì, ridotto alla bestialità, costretto a cibarsi di carne umana. Le vittime che gli vengono concesse le sbrana senza alcun ritegno. La catena s’interrompe con la comparsa di un nuovo eroe: Teseo, uno dei giovani offerti in pasto al minotauro, il quale decide di ucciderlo. Arianna s’innamora di lui e lo aiuta a fuggire dal labirinto grazie al suo celebre filo.
Il grande scrittore svizzero si mette dalla parte del minotauro, trasformandolo in una creatura fragile, teso alla semplice sopravvivenza. Inverte dunque, con piglio moderno, il ruolo dei due personaggi mitologici. Nella sua visione Teseo non è più l’innocente ragazzo da sacrificare, ma il killer del minotauro. Il luogo in cui questi è recluso viene descritto come un’orribile corte di specchi dove si riflettono un’infinità di gemelli: “Si ritrovò in un mondo di esseri accovacciati / senza accorgersi che quell’essere era lui. / Rimase come paralizzato. Non sapeva dov’era, / non sapeva che cosa volessero da lui quegli esseri, / forse era soltanto un sogno, anche se non sapeva / cosa fosse sogno e cosa realtà.”
Come non pensare a ognuno di noi? Non è forse il labirinto la nostra esistenza, consumata nell’attesa di trovare un possibile varco di uscita e salvezza? In Franz Kafka l’intrico che ci vieta la fuga assume la dimensione del castello inaccessibile e segreto dove pochi funzionari, nominati da chissà chi, riuniti in misteriosi consessi, decidono sulla sorte dei sudditi. I verdetti di colpevolezza o assoluzione da loro formulati saranno comunque insindacabili, imperscrutabili. Con tutta la buona volontà, non riusciremo mai a venirne fuori. Ma le risonanze in Dürrenmatt, che non a caso sentenziò la fine del romanzo poliziesco svelando la dimensione farsesca di ogni possibile logica investigativa, sono ancora più ampie e profonde: si trascinano dietro come giocattoli colorati le intuizioni di tanti altri scrittori. Michel Leiris in Miroir de la tauromachie (1938) aveva di fatto simbolicamente connesso letteratura e corrida: a ben pensare scrivere è sempre una sfida nei confronti della finitudine.
E poi non era stato proprio Ernest Hemingway, in una delle sue opere più intense e durature, cioè Morte nel pomeriggio (1947), a dirci che nessuno di noi, a prescindere dalla scelta compiuta, può sottrarsi al massacro? Il toro, «qualora non carichi affatto, viene destinato alla castrazione e al macello… Se questa è la sentenza, il proprietario lo chiama bue, invece di dire toro che significa che è approvato per l’arena». Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò (1947), suo libro-testamento, nel capitolo intitolato Il toro, fa dire a Teseo, sorta di primo matador: «Quel che si uccide si diventa». Dove s’avvera la drammatica premonizione di Jorge Luis Borges: «Lo crederesti Arianna? – disse Teseo. Il minotauro non sì è quasi difeso» (La casa di Asterione, in L’Aleph, 1952). In seguito Octavio Paz, nelle vertiginose riflessioni comprese in Congiunzioni e disgiunzioni (1969), aveva suggerito un legame fantasmagorico fra l’attività dello scrittore e quella del picador, siglando così per sempre la solitudine dell’uomo sudamericano.
Tornando a Dürrenmatt: spaccare gli specchi, dove si moltiplicano le nostre false identità, consente al minotauro di scoprire la verità. Eppure, nel momento in cui si rende conto di non essere più solo e decide di fidarsi del prossimo di fronte a lui, il prigioniero subisce il vero tradimento. L’essere travestito da toro, insieme al quale ha ballato la danza dell’amicizia, altri non era che il suo nemico, pronto a pugnalarlo alle spalle. È questa, nella rappresentazione ritmica della composizione in cui prosa e poesia giocano ad armi pari, l’essenza di ogni politica: “Teseo si tolse dal viso / la maschera da toro e tutte le sue immagini / si tolsero dal viso la maschera da toro, / riavvolse il filo rosso e sparì dal labirinto, / e tutte le sue immagini riavvolsero il / filo rosso e sparirono dal labirinto, / che non rispecchiava più nulla se non, senza fine, / lo scuro cadavere del minotauro”. Con una chiusura, definitiva e apocalittica che, lasciando intravedere spazi allo stesso tempo urbani e primordiali, non lascia adito a nessuna illusione sulla cosiddetta civiltà: “Poi, / prima che venisse il sole, vennero gli uccelli.”
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