Ambiente
Il “modello cavillo” minaccia per l’Italia nella difesa dal clima
Continuare a dormire sul Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici sarebbe folle. La navigazione burocratica continuerà senza una data di approdo: perché il governo cincischia?
Mentre l’Italia continua a confermarsi tra i territori del Pianeta più esposti ai rischi climatici che tutte le proiezioni indicano con l’aggettivo “incalcolabili”, continua l’imbarazzante dormita con melina del governo sulle 361 azioni di adattamento, mitigazione e prevenzione nei 27 settori previsti da quel che era stato annunciato come “il piano dei piani”, ma che continua ad essere un piano missing. Già, perché chi lo cerca da 8 anni e mezzo, da ben 3.100 giorni dall’avvio delle procedure autorizzative, ancora non lo trova. Perché il “Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici” resta inchiodato alla mitologia degli atti ministeriali dispersi che non arrivano mai a conclusione. Sul sito del Ministero competente, quello dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, c’è la nota dell’11 maggio 2023: “Al fine di dare attuazione alla Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, approvata con decreto n. 86 del 16 giugno 2015 dal Ministero dell’Ambiente, è stata avviata l’elaborazione del Piano nazionale di adattamento.
Il Piano è attualmente sottoposto a procedimento di VAS. Informazioni e dati saranno resi disponibili a seguito della sua approvazione”. Il 10 agosto scorso, però, tutti tirammo un sospiro di sollievo. Sembrava fatta. Finalmente i ministri dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, e della Cultura, Gennaro Sangiuliano, firmarono il decreto che doveva mettere fine all’estenuante fase di Valutazione Ambientale Strategica, ma lo fecero senza l’adozione del Piano, e per farlo basterebbe un decreto del ministro dell’Ambiente. Il motivo? Non sono bastate due sfibranti fasi di aggiornamento dalla sua redazione avvenuta nel 2016 – quella avviata nel 2018 e poi riavviata nel 2022 – e i tecnici dovranno ancora valutare altre migliaia di osservazioni che saranno espresse dagli uffici territoriali del Ministero della Cultura – segretariati regionali e Soprintendenze e altre sedi -, dalle Regioni e dalle Province autonome ricomprese nel parere della Direzione Archeologica Belle Arti e Paesaggio.
La navigazione burocratica del Piano più urgente continuerà senza una data di approdo. Anziché sforbiciare le perdite di tempo più idiote con trafile da azzeccagarbugli per i cantieri più utili e urgenti, hanno preferito restare sotto dittatura del “modello cavillo” che impone invii di mail, file, cartografie, nuovi studi, con labirinti di firme e autentici deliri interpretativi. Eppure il governo, fosse solo per non continuare ad accumulare ritardi e danni, potrebbe approvarlo già oggi e renderlo immediatamente operativo almeno nelle fasi di predisposizione. E cioè nella pianificazione delle azioni, nella individuazione dei pacchetti di investimenti allineando fondi di ministeri e la cornice finanziaria del PNRR, i piani europei, nazionali e regionali. Potrebbero già essere attivate le governance nazionale e regionali per la sua regia e il coordinamento, definiti i supporti tecnico-scientifici e il previsto “Osservatorio Nazionale” che dovrà vigilare sulle opere per “contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici, incrementare la capacità di adattamento, sfruttare tutte le opportunità, favorire il coordinamento delle azioni a diversi livelli, garantire strumenti per la partecipazione”. Invece? Il governo fa continuare il giro d’Italia delle carte per sempre nuove consultazioni anche se è il Piano più aggiornato di tutti i tempi. E più gira l’Italia dei timbri e delle firme più perdiamo tempo, e più perdiamo tempo e più stiamo fermi e rischiamo danni climatici. Eppure i prossimi dieci anni, avvertono gli scienziati del clima, saranno la “finestra” utile ad attivare le difese per non fare la fine degli orsi polari in bilico sui lastroni di ghiaccio in fusione. I segnali non sono mai stati così chiari e condivisi dalla comunità scientifica. Ieri, sul “New York Times”, gli analisti hanno rilevato come “la Terra sta terminando il suo anno più caldo degli ultimi 174 anni, le temperature globali di quest’anno non hanno battuto tutti i record precedenti, ma li hanno letteralmente polverizzati”.
E se il decennio 2010-2020 era stato archiviato come il più caldo in un secolo e mezzo di rilievi e con temperatura media globale a più 1,1°C sull’era preindustriale, il 2023 diventerà dal prossimo lunedì l’anno record con 1,4°C in più sui livelli 1850-1900. Ciò significa che siamo quasi sulla soglia-killer degli 1,5°C in più prevista come l’incubo da non raggiungere nell’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015, e confermata nella risoluzione alla Cop28 di Dubai. Ma la crescita delle temperature al 2100, ai ritmi attuali, è calcolata tra 2,5°C e 2,9°C, e gli impatti saranno disastrosi soprattutto sulla nostra penisola diventata bersaglio dei effetti climatici nell’area mediterranea. Dall’ultima modellistica del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici alle proiezioni di Cnr, Enea, Ispra, e del Dipartimento nazionale della Protezione Civile, si elencano aumenti di frequenza e intensità di ondate di calore con siccità, alluvioni, rischi produttivi, aumento del livello del mare. Del resto, a scuotere il governo basterebbe una gita sulle Alpi per immergersi nell’anomala normalità di questo Natale quasi senza neve e dove si scia sulla neve artificiale con temperature intorno ai 20 gradi. Non si tratta oggi di evitare i danni, ma di limitare i danni. Rinviare e cincischiare tenendo a bagnomaria il Piano di Adattamento sarebbe folle di fronte a rischi anche per intere filiere economiche.
Tutto richiederebbe velocità nelle scelte, condivisione con le opposizioni, tempi certi invece di restituire un senso di resa e di impotenza mentre tante nostre aziende proprio sugli obiettivi tracciati nel Piano, innescano business e attivano economie anche se nell’ultima manovra finanziaria per questa urgenza sono state previste zero euro. Anche i sassi sanno che continuando così il clima presenterà il conto soprattutto a figli e nipoti, e magari alle compagnie assicurative chiamate a rimborsare i danni e già prevedono 1.701 miliardi di euro, calcolate dall’agenzia Cerved, di esposizione potenziale dovuta all’introduzione dal 2024 per tutte le imprese dell’obbligo di assicurarsi e oggi solo il 7% è coperto da polizze contro eventi catastrofali. Se in media globale le catastrofi stanno costando 75 miliardi di dollari a semestre, calcola Swiss Re Institute, in Italia le sole 4 grandi alluvioni dei soli ultimi 15 mesi – Marche 15 settembre 2022, Ischia 26 novembre 2022, la Romagna 1-17 maggio 2023, e dal 3 novembre 2023 la Toscana – oltre la tragedia di 45 vittime, feriti e migliaia di sfollati, oltre il crollo di quote di Pil i danni complessivi superano i 15 miliardi di euro. Quasi due terzi della manovra finanziaria 2024.
Insomma, abbiamo un Piano ben fatto, già pronto, ha un quadro chiaro e dettagliato dei rischi e delle opportunità, contiene la certezza di poter ridurre i danni investendo molto meno di quanto potremmo spendere in futuro nei macro-settori: acqua, desertificazione, dissesto idrogeologico, biodiversità, salute, foreste, agricoltura, pesca, porti e zone costiere, turismo, insediamenti urbani, infrastrutture, trasporti, energia. Sappiamo di essere, noi italiani, i primi nelle soluzioni – e basterebbe il solo MOSE a dimostrarlo – e i primi ad essere ingaggiati nel resto del mondo dove la difesa dal clima sta diventando forza economica e sociale trainante. E chi resta fermo, sceglie una sola via, quella del declino.
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