Il pacchetto-sicurezza non è a sorpresa: prende le mosse dal solito concetto asfittico di “sicurezza” che trasforma problemi e rivendicazioni sociali, quelle che si esprimono ad es. con imbrattamenti reversibili o l’impedimento della libera circolazione su strada, in questioni di ordine pubblico; che espande la penalità; che dilata i presupposti per le sanzioni cosiddette ibride come i “daspo” urbani (ma anche la revoca della cittadinanza), come pure per altre misure preventive; che, infine, rappezza deficienze strutturali gravissime delle strutture penitenziarie e di quelle di trattenimento e raccolta di migranti, col nuovo reato di “rivolta” esteso a condotte di mera resistenza anche passiva agli ordini impartiti. Nulla di nuovo sotto il sole: all’interpretazione restrittiva magari di tipo ortopedico ci si acconcerà come in altre simili occasioni.

I due aspetti

Tuttavia, qui sembra più utile evidenziare due altre ragioni di preoccupazione: la prima, riguarda la tacita pretesa di dedurre dalla legittimazione democratica del legislatore la legittimazione intrinseca del prodotto legislativo, sottraendo le scelte penali a quelle cautele del procedimento legislativo destinate a fornire una certa garanzia di qualità formale e sostanziale del prodotto normativo. La seconda, un cambio strisciante del ruolo delle forze dell’ordine nel contesto dei poteri istituzionali.

Quanto al primo aspetto, il disegno di legge è espressamente sottratto, proprio per le parti più qualificanti dal punto di vista della politica criminale (le fattispecie incriminatrici ed aggravanti), all’analisi preventiva d’impatto della regolazione – figuriamoci che sarà della valutazione successiva. In questo modo, le scelte di criminalizzazione sono vestite di una dignità intrinseca ed assoluta, non scalfibile da obiezioni empiriche o razionali: servono al marketing comunicativo. Quanto poi al controllo sulla “qualità del testo”, dovrebbe essere effettuato dal comitato per la legislazione: ma non è difficile scoprire dai resoconti che questo talvolta non vede la foresta per i troppi alberi, talvolta è voce che grida nel deserto.

Una strada di resistenza ostinata

A queste condizioni, resta una strada di resistenza ostinata: quando il legislatore mette in tensione principi fondanti della legalità penale si deve escludere, in primo luogo, il ricorso giudiziario all’ortopedia ermeneutica e persino, eventualmente, all’interpretazione costituzionalmente conforme che non risolve alla radice il dubbio sul rispetto della Costituzione e apre al conflitto fra poteri; serve la responsabilità istituzionale di sollevare la questione di legittimità. In secondo luogo, quegli stessi principi fondanti devono essere dilatati al massimo della loro potenzialità espressiva di limite al potere legislativo. Ad esempio, la resistenza passiva nel caso di rivolta carceraria, anche ammessa la sua rilevanza in relazione al contesto, non può essere punita allo stesso modo perché meno grave: violazione degli art. 3 e 27 della Costituzione.

La crescita del potere militarizzato

La questione è piuttosto culturale che tecnico-normativa: ma si tratta di riconoscere in termini generali che, in un contesto sociopolitico che esalta la pura volontà del legislatore come voce del popolo, l’idea di sistema giuridico come informato al rule of law quale controllo sul legittimo potere legislativo, deve cercare rimedi vincolanti e validi per la generalità dei casi. Quanto al secondo aspetto, è il fondo forse più oscuro del pacchetto: l’avvio di una surrettizia trasformazione nell’intendere i pubblici poteri. All’interno di questi, cioè all’interno della qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, viene ritagliata per i contesti di conflittualità la dimensione specifica dell’essere un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza (che aggrava i delitti di violenza, minaccia, resistenza al pubblico funzionario).

In realtà proprio quel tipo di delitti ed in particolare quello di resistenza presuppone di per sé l’esercizio d’un tipo di poteri che, per così dire, naturalmente sono detenuti dalle forze di pubblica sicurezza e da coloro che agiscono con funzioni di polizia giudiziaria.
L’ulteriore aggravamento ricollegato al sottolineare quell’appartenenza serve allora a conferire una speciale dignità, una speciale importanza dei relativi poteri rispetto a tutti gli altri poteri, e ovviamente rispetto ai cittadini ‘comuni’. È una crescita del potere militarizzato o quantomeno della sua auto-rappresentazione che, per restare al lessico militaresco, chiama quantomeno al «chi va là?».

Alberto Di Martino

Autore

Professore Ordinario di Diritto Penale