«Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusioni, sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità». Questo epitaffio definitivo sul populismo, sulla massa instabile e incapace di discernimento, è stato pronunciato da uno di quegli scrittori immensi, inarrivabili, di cui noi italiani dovremmo essere orgogliosi: Francesco Guicciardini.

L’estate, in cui ci ritroviamo ad avere un po’ più di tempo (o ci illudiamo di averlo) è stagione di classici. Chi è un classico? Direi: un autore che non solo eccelle ma che dura nel tempo, poiché ha riflettuto in profondità su alcuni caratteri “eterni”, o pochissimo mutevoli, della natura umana. Il mio classico di agosto è stato I ricordi di Guicciardini (nati nel 1515, e pubblicati postumi), uno zibaldone di pensieri concentrato in duecento paginette, un capolavoro assoluto della nostra letteratura, un deposito inesauribile di sapere psicologico, antropologico, politico, etico, etc. (“ricordi” sta per “ammonimenti”), che si affianca alla sua grande opera storiografica. Altro che il Kitsch filosofico-allegorico di Nietzsche! No, qui siamo interamente dentro il bene e il male, dentro la umana responsabilità, e soprattutto all’interno di un pensiero scandito da uno stile finissimo, denso e conciso.

Anzitutto sgombriamo il campo da un equivoco, e cioè la supposta contrapposizione con Machiavelli (il quale peraltro avrebbe condiviso in pieno quel giudizio sulla massa), che origina da De Sanctis, ostile a Guicciardini perché avrebbe nobilitato l’ossessione degli italiani per il loro angusto “particulare”. Restano ovviamente importanti differenze tra i due – possiamo solo accennarne (forse la più rilevante è la diversa concezione del conflitto, in Machiavelli assolutamente positiva…) -, ma innumerevoli sono le affinità e i punti di contatto: certamente entrambi si collocano entro un filone di realismo politico, temperato in Guicciardini da un forte senso della misura («non mi piacque mai ne’ miei governi la crudeltà e le pene eccessive»), così come una antropologia decisamente pessimista che viene corretta in Gucciardini da una convinzione della bontà originaria degli esseri umani (i quali gli appaiono fragili più che malvagi: «gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che a male», anche se facilmente se ne lasciano deviare). I due furono inoltre amici ed ebbero un fitto scambio intellettuale. Entrambi caddero in disgrazia e videro il fallimento delle proprie aspirazioni politiche, dopo aver svolto fondamentali incarichi pubblici, anche se la vicenda di Guicciardini prima ambasciatore in Spagna e poi all’interno dello stato pontificio (con i papi medicei) ci appare meno turbolenta e meno drammatica.

Torniamo ai Ricordi, dove viene anticipato di mezzo secolo il saggismo moderno di Montaigne (suo ammiratore), l’invenzione del personal essay, come del resto nell’epistolario machiavelliano (mentre Castiglione e Della Casa, a loro modo arguti moralisti e osservatori del costume, non escono mai da certa precettistica a fini pratici). Proprio come Montaigne Guicciardini è un pensatore antimetafisico, avverso a ogni sapere assoluto: ha un senso così acuto della complessità e varietà dell’esistenza, che si vieta di estrarne una qualche essenza, o di ricavarne leggi eterne. I singoli eventi sono per lui irripetibili, e perciò occorre giudicare le cose del mondo «giornata per giornata». Il suo sapere è interamente fondato «sull’accidentale dell’esperienza». Per la ragione che «gli uomini sono al buio delle cose» e chi così la speculazione metafisica «serve più ad esercitare gli ingegni che a trovare la verità». Non aspira, come invece Machiavelli, a elaborare una teoria politica o una filosofia della Storia. E ci tiene a precisare che «la dottrina accompagnata co’ cervelli deboli non li migliora».

Qui e là ho selezionato alcuni ricordi, senza pretese di completezza, che ora vorrei sottoporvi. Prendiamo subito la questione della vita come palcoscenico, tipica del ‘500 e del ‘600. Guicciardini è consapevole che ognuno di noi recita una parte nel teatro della società. Anzitutto elogia che vive in modo «libero e schietto» usando la simulazione solo raramente (e così giovandosene ancor più), ma poi scrive un “ricordo” particolarmente istruttivo: sforzatevi di apparire buoni (vi sarà utile), ma dato che le opinioni false non durano a lungo «difficilmente vi riuscirà il parere lungamente buoni, se in verità non sarete». Accennavo a un pessimismo moderato. Si veda il suo giudizio su certi eventi politici che prescindono per lui da qualsiasi legge (tendenzialmente universale) di equità morale: ad esempio non riesce ad accettare il fatto che la «giustizia di Dio» comporti la presa di Milano da parte di Ludovico Sforza, che «acquistò sceleratamente, e per acquistarlo fu causa della ruina del mondo» (vi è insomma una «scelleratezza» che trascende qualsiasi calcolo di utilità).

Gucciardini è smascheratore della falsa morale qualche secolo prima della cosiddetta «scuola del sospetto»: guardate come «ciascuno reputa brutti i peccati che lui non fa, leggeri quelli che egli fa», e con questa regola misura il bene e il male. E come esempio di realismo crudo, con una sfumatura di cinismo: «Pregate Dio di trovarvi dove si vince» poiché sarete lodati anche per ciò che non avete fatto, mente «chi si trova dove si perde» è imputato «di infinite cose» di cui è «inculpabilissimo». Concludo su un “ricordo” particolarmente affilato, che sono tentato di applicare alla vita quotidiana, e alle vicende di persone che conosco: «la buona fortuna» degli uomini è il loro maggiore nemico, perché li fa diventare spesso «cattivi, leggeri, insolenti», perciò diventa un compito ancor più difficile per loro «resistere» a questa che alle avversità. Che significa? Dobbiamo augurare qualche disgrazia ad amici e conoscenti? Certo che no. Ma occorre sapere che la fortuna e il successo li rendono peggiori poiché ci basta poco per non vedere la assoluta casualità di ciò che ci capita e per dimenticare il dolore degli altri.