Cinema
“Il primo giorno della mia vita” è il film sulle seconde possibilità
Nel suo romanzo “Non buttiamoci giù”, Nick Hornby racconta di quattro sconosciuti che, la notte di Capodanno, si ritrovano in cima a un palazzo di Londra, pronti a buttarsi giù. Ognuno ha i suoi buoni motivi per farla finita, e Hornby li affronta col suo solito stile esilarante e autoironico anche quando maneggia temi complessi. Alla fine, i quattro scendono sì dal palazzo, ma per le scale: salvandosi dalla morte ma non dal resto della propria vita incerta.
L’incipit di questo romanzo del 2005 somiglia moltissimo a quello de “Il primo giorno della mia vita”, film di Paolo Genovese (il suo “Perfetti sconosciuti” del 2016, con oltre 20 remake, è stato un grande successo di critica e di pubblico), nelle sale in questi giorni. In questo caso, i quattro i protagonisti si sono appena tolti la vita. Immaginate una notte romana, di pioggia rabbiosa e senza speranza. I fari di una vecchia Volvo station wagon illuminano la strada allagata. L’Uomo (Toni Servillo) – anche detto “Coso” – raccoglie alcune persone a bordo: sono loro, o meglio i fantasmi di quattro suicidi, invisibili al resto del mondo. Che dovranno trascorrere con lui sette giorni. Dopo i quali, se vorranno, potranno tornare indietro nel tempo, precisamente a pochi secondi prima del suicidio. E decidere se vivere (il primo giorno della loro nuova vita) oppure tornare a morire.
Chi non ama il genere fantastico, non si preoccupi troppo: il tema al centro del copione resta umano, troppo umano. Chi è che non ha mai perso la speranza? Chi non si è lasciato sopraffare, ameno una volta, dalla disperazione? Chi non è mai stato vinto dal dolore? E chi non è poi precipitato nel vuoto? Tutti. Proprio in quanto umani: è la vita che contiene anche la morte, il coraggio che cede il passo alla paura e poi, per alcuni, segna la fine. Eppure il film – a tratti didascalico e con alti e bassi – è più una proposta di speranza di vita che non di morte. E pare prendere sul serio, la domanda delle domande: quante volte possiamo ricominciare da capo? Quante seconde e terze e quarte possibilità abbiamo in una sola vita? E quanti “primi giorni” abbiamo l’occasione di vivere prima di morire per davvero?
Ecco, Genovese ci suggerisce che ciascuno di noi ha, almeno, un’altra possibilità prima della resa. E lo fa dirigendo un cast all’altezza del suo copione, senza ridodanze, (quasi) senza sbavature retoriche (un film su temi così complessi non può che essere imperfetto!), e sicuramente senza mai uscire dal perimetro dell’umano, mantenendosi essenziale.
Ed ecco che la seconda possibilità è offerta ad Arianna (Margherita Buy), poliziotta, che ha perso la figlia sedicenne e alla fine non è riuscita a staccarsi da quel dolore atroce. A Napoleone (Valerio Mastandrea) che, a dispetto del nome, era un guru motivazionale ma depresso. Ad Emilia (Sara Serraiocco), ex ginnasta, eterno secondo posto, finita su una sedia a rotelle. E a Daniele (Gabriele Cristini), ragazzino diabetico, diventato per volontà del padre uno YouTuber di successo: ingurgita decine di ciambelle per far aumentare follower e soldi ma è vittima dei bulli della scuola e ne soffriva troppo.
L’Uomo-Servillo li accoglie in questo limbo che logisticamente si presenta come un hotel polveroso e dimesso, dove lui ospita, ogni volta, le vite che hanno cercato la fine. E permette loro di spiare, per pochi secondi, ciascuno nel proprio futuro, per farglielo desiderare:. Dice “Ci sono un sacco di persone nel vostro futuro che vi aspettano: più o meno lontane nel tempo, ma sono lì”. Ma poi avverte: “Vedere la vita senza di noi è sempre doloroso. E non perché è bella o brutta. Ma perché va avanti. Comunque va avanti”.
Un cast diverso, molto probabilmente, non sarebbe stato all’altezza del copione: Mastandrea è perfetto nel ruolo cruciale (no spoiler) di fare il controcanto di Servillo che, umanissimo “angelo” (lui rifuta questo appellativo), è continuamente messo alla prova dall’angoscia di fallire nel tentativo di “riportarli alla vita”.
In un’intervista, Genovese ha dichiarato di essere stato ispirato per il film dal famoso documentario The bridge – il ponte dei suicidi del regista, Eric Steel che piazzò una telecamera in cima al ponte che scavalca la baia di San Francisco: il Golden Gate, il luogo della terra dove si compie il più alto numero di suicidi nel mondo. Poi, è andato a intervistare chi era sopravvissuto al salto nel vuoto e tutti hanno raccontato di essersi pentiti “in quei 7 secondi (come i sette giorni del film, ndr) che cadevano nel vuoto”, ha poi riferito.
“L’unica cosa che davvero conta è che abbiate nostalgia della felicità, così vi viene voglia di cercarla”, dice ai quattro, uno degli ultimi giorni, l’Uomo-Servillo. Ma come si fa ad avere nostalgia di qualcosa che non si è mai conosciuto? Sembra chiedergli Napoleone, alla fine, con quel suo sguardo pieno di dolore.
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