In uno dei passi più controversi dell’Anti-Düring, Friedrich Engels ha rilevato come solo la schiavitù abbia reso possibile il fiore della civiltà greca. D’altronde, mentre il lavoro manuale e il disbrigo delle professioni più faticose veniva garantito da individui privi di diritti, altre persone potevano coltivare la dimensione della speculazione teorica, della filosofia, della politica e delle arti. Il progresso, economico e spirituale, era intimamente connesso alla condizione reificata di esseri umani, tenuti in condizioni situate del tutto fuori dal perimetro del riconoscimento della soggettività giuridica.

Argomentazioni non dissimili stanno emergendo nel cuore della società digitale. Riflettendo sul rapporto tra automazione e mondo del lavoro, ci si è domandati – con sguardo disperso tra le nebbie della distopia – cosa sarà dell’essere umano se le macchine saranno chiamate a svolgere una mole sempre crescente di mansioni lavorative. Non solo quelle più gravose e pericolose, ma anche le professioni intellettuali.

Nonostante l’avanzamento della tecnologia non sia ancora così minaccioso per avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti, creativi, «sostituiti» soltanto negli ambiti più standardizzati e ripetitivi, un certo sentore a metà tra utopismo ed escatologia propugnato anche da alcuni movimenti politici sta inquinando il dibattito. La chiave di volta per scongiurare la sostituzione dell’essere umano con la macchina risiede, chiaramente, nella capacità di riqualificazione del professionista e del lavoratore, attraverso una formazione seria e continua e attraverso (soprattutto) la specializzazione.

Ma per i teorici dell’uno vale uno tutto ciò sarebbe troppo semplice, poco futuristico e scarsamente capitalizzabile in termini di demagogico consenso politico. E quindi, con ogni probabilità senza nemmeno rendersi pienamente conto delle implicazioni politiche, filosofiche e sociali sottese a certe proposte, non manca chi confida nel mito della piena automazione per tornare al paradigma di Engels.

Quando Beppe Grillo parla di reddito universale incondizionato, lo legge all’ombra della robotizzazione dei processi produttivi, in una «società dell’ozio» – per dirla alla Tom Hodgkinson – in cui le macchine lavoreranno e gli esseri umani, novelli Aristotele e Sofocle, potranno comporre musica, scrivere tragedie, filosofeggiare. Un mito pericoloso, perché si basa sul presupposto della fine del lavoro, dimenticando per via la sua rilevanza fondamentale per lo sviluppo dell’essere umano. Arrivando dritti a quel Le persone non servono evocato da Jerry Kaplan, paradigma in cui ogni essere diventa nero e indistinto come la notte più cupa. D’altronde basterebbe analizzare i presupposti concettuali del reddito universale incondizionato e soprattutto il successo di cui gode tra le grandi piattaforme digitali per verificarne la pericolosità sociale e politica. Autentica mancia feudale per la plebe, espressione di Luis Moreno e di Raul Jimenez nel loro Democrazie robotizzate, ha una sostanza ampiamente ricollegabile al mondo del digitale.

Un reddito basato sulla idea di una quasi totale automazione dei processi produttivi. Incubo distopico di totale livellamento del corpo sociale, a ben vedere.
Joel Kotkin, autore di The Coming of Neo Feudalism, lo definirebbe «neofeudalesimo digitale», rapporti istituzionali puramente privatistici e societari basati non più sulla coercizione statale ma sul contratto. Ovviamente, sottolinea Kotkin, stante la asimmetria tra singolo individuo e titani del Tech, sarebbero proprio le piattaforme ad assumere la conformazione dei nobili proprietari della terra, e gli utenti finirebbero per rifluire al ruolo di potenziali servi della gleba. Sussidiati senza soluzione di continuità e totalmente dipendenti dalla mano dei nuovi signori, gli esseri umani cesserebbero di potersi dire individui, rifluendo in una dimensione di mera sudditanza, nei confronti delle piattaforme o dello Stato, senza più alcun incentivo alla indipendenza.