Dai sondaggi emerge che gli italiani sanno poco o niente sul contenuto dei referendum dell’8 e 9 giugno. E sarà difficile che oltre il 50% degli elettori metta una scheda nell’urna, anzitutto per questo motivo. Anche perché bisogna fare chiarezza sui quesiti promossi dalla Cgil, che rischiano di trasformarsi in un boomerang. Sullo sfondo si sta consumando una surreale sceneggiata di “rottamazione del rottamatore” (Matteo Renzi) tra i partiti. Eppure, come recita un proverbio cinese molto amato da Emanuele Macaluso, “chi prende l’acqua dal pozzo, non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato”.

La disciplina dei licenziamenti per gli assunti dopo il 7 marzo 2015

La riforma del governo Renzi prevedeva che gli assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti non fossero reintegrati sul posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. La riforma ha introdotto il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, un contratto a tempo indeterminato in cui il reintegro viene sostituito da un indennizzo crescente con l’anzianità di servizio. Dal 2015, in realtà, la legge è stata rimaneggiata più volte dalla Corte Costituzionale e dal governo Conte I, che ha aumentato l’indennizzo massimo in caso di licenziamento da 24 a 36 mesi della retribuzione.
Abolire la disciplina dei licenziamenti illegittimi del Jobs Act non implica un ritorno alle regole dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bensì alla “riforma Fornero” del 2012, che aveva già limitato fortemente il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo nella maggior parte dei casi solo un risarcimento. Se vincesse il sì, solo per alcuni licenziamenti – come quelli nulli o discriminatori – sarebbe di nuovo possibile il reintegro. E l’indennizzo massimo sarebbe comunque di 24 mensilità, quindi inferiore alle 36 previste dalle norme attuali.

La disciplina dei licenziamenti per i dipendenti delle imprese minori

Il quesito intende modificare la norma che prevede, nel caso del licenziamento del lavoratore di un’impresa con meno di 15 dipendenti ritenuto dal giudice non sufficientemente motivato, un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione. Se prevalesse il sì, verrebbe soppresso questo limite massimo. Il giudice potrebbe dunque condannare l’impresa a un indennizzo persino superiore a quello vigente nelle imprese medio-grandi. Così le imprese più piccole potrebbero essere condannate a pagare indennità persino superiori (in teoria, senza alcun limite) a quelle previste per le imprese maggiori.

La disciplina dei contratti a termine

Il quesito referendario ha l’obiettivo di modificare la disciplina dei contratti a termine stabilita da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, imponendo l’obbligo al datore di lavoro di indicare nel contratto il motivo anche per la prima assunzione, quando esso ha durata pari o inferiore a un anno. I rapporti di lavoro a termine avrebbero quindi una durata massima di 24 mesi; e, se stipulati in assenza delle esigenze specifiche previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, si trasformerebbero in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In sostanza, si tornerebbe a una disciplina molto simile a quella vigente dal 2001 al 2012, con il rischio però di un incremento dei contenziosi giudiziari.

La corresponsabilità solidale di committente e appaltatore per la sicurezza del lavoro

Secondo la normativa in vigore, committente e appaltatore sono corresponsabili in solido per il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti dell’appaltatore e dei relativi contributi previdenziali, nonché per il risarcimento dei danni da infortunio degli stessi dipendenti quando l’appalto si svolge dentro il perimetro dell’azienda del committente. La norma che il referendum intende abrogare è solo quella che prevede un’eccezione nel caso in cui l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella dell’impresa committente. Se tale eccezione venisse cancellata, la ditta committente sarebbe corresponsabile del danno subìto dal dipendente della ditta appaltatrice, per un rischio sul quale la prima non ha alcuna competenza.