Se fosse diventato realtà il progetto che Ezio Tarantelli aveva in testa, oggi l’Italia sarebbe un altro Paese. Forse nessun disegno globale come il suo fu tanto rivoluzionario e riformista insieme. Questo grande economista – com’è noto – venne assassinato giusto quarant’anni fa dai sicari delle Brigate rosse, un gruppo di ignoranti legati all’idea che il riformismo sia il primo nemico della rivoluzione; il che peraltro, in un certo senso, è vero. Gli spararono con una Skorpion davanti alla facoltà di Economia dell’Università di Roma, dove insegnava. Lo stesso tragico destino che si abbatté su altri grandi riformisti come Roberto Ruffilli, Marco Biagi, Massimo D’Antona.

A quarant’anni dalla morte ci aiuta a ripensare, o conoscere per la prima volta, il complesso del pensiero tarantelliano un libro del figlio, Luca Tarantelli, “Il coraggio delle proposte ‘impopuliste'” (Edizioni Lavoro), curato anche da Emmanuele Massagli. Dunque, Ezio Tarantelli: aveva un curriculum eccezionale. Laureatosi con Federico Caffè, che lo introdusse nel prestigioso Ufficio studi della Banca d’Italia dove fu molto stimato da Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, aveva studiato negli Stati Uniti con premi Nobel come Franco Modigliani, Paul Samuelson, Joseph Stiglitz. Qual era il cuore del progetto di Tarantelli? Diciamolo con le parole del figlio Luca: «Secondo lui si poteva risolvere il problema dell’intervento sull’inflazione senza produrre disoccupazione modificando il sistema delle relazioni industriali. Questa è l’essenza della sua teoria sul neocorporativismo, che era alla base della proposta che fece ai sindacati alla fine degli anni Settanta. Mio padre scelse questo termine perché era ampiamente utilizzato nella letteratura scientifica internazionale ma in Italia ricordava sinistramente il corporativismo e il sindacato unico fascista. Questo termine non gli portò fortuna nelle relazioni pubbliche e successivamente alla sua morte, con il Governo Ciampi, passò sotto il nome di concertazione».

Nella visione di Tarantelli, non accettata dalla Cgil (sempre legata al modello del sindacato conflittuale) ma invece apprezzatissima dalla Cisl modernizzata da Pierre Carniti, il sindacato doveva diventare un soggetto centrale della definizione della politica economica del Paese. «Nella sua visione occorreva uno “scambio politico”, per effetto del quale il sindacato avrebbe ottenuto riforme strutturali in cambio della moderazione salariale. Nel libro “Il ruolo economico del sindacato e il caso italiano”, proponeva allo stesso un ruolo da protagonista affermando che doveva essere uno degli attori (con lo Stato e le imprese) di questa nuova cogestione politica». Si comprende come il progetto tarantelliano, fondato su una profonda conoscenza dei modelli macroeconomici, fosse incompreso dagli attori politici di quegli anni ancora legati alla fase, seppure finale, del boom postbellico imperniato ancora sul tradizionale conflitto tra imprenditori e sindacati con un ruolo di mediazione dei partiti. Naturalmente sarebbe dovuto cambiare il volto del sindacato che avrebbe dovuto essere «il soggetto pienamente titolato a partecipare alla politica economica, non più dipendente da una linea esogena, motivata da bisogni politici, bensì autonomo e rispondente solo alle sue basi». La fine della cosiddetta “cinghia di trasmissione”.

«Dati alla mano, con la centralizzazione delle relazioni industriali diventa possibile una politica di predeterminazione dell’inflazione e di scambio politico di tipo neokeynesiano. Che, a suo avviso (di Tarantelli, ndr), è la sola strada per evitare la corda del boia di politiche monetarie restrittive. Cioè l’unica strada per evitare indesiderate e dolorose conseguenze in termini di maggiore disoccupazione», scrisse Carniti. Purtroppo, anche se le idee di Ezio Tarantelli rimarranno sempre un punto di riferimento, in un giorno di marzo una maledetta mitraglietta pose fine a quel coraggioso tentativo.