«Agli italiani piace ridere e fare ridere», scriveva Flaiano, che della materia si intendeva. Il comico è radicato nel nostro modo di essere al mondo. E aggiunge: «Due italiani si incontrano al Polo Nord: già fa ridere». Perciò da noi al posto del tragico si installa la commedia, e il nostro carattere viene più da Boccaccio, da quell’universo carnevalesco dove tutti imbrogliano tutti, anche ridendoci sopra (come nei western di Sergio Leone) che dalla severità morale di Dante. Nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Leopardi osserva che «gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione».

Il denso saggio dello psicanalista Salvatore Zipparri Il riso e il sacro (FrancoAngeli, pp. 102, euro 19) affronta dunque una questione centrale per noi italiani, e per come si è formato il nostro carattere nazionale nei secoli. Il libro ripercorre varie teorie sul riso (da Rabelais a Bachtin da Ferenczi a Eco, da Baudelaire a Eagleton, singolarmente trascurando il saggio importante di Pirandello del 1908), alla sua irriducibile ambiguità, ma resta fedelmente ancorato alla teoria freudiana, che insiste sulla natura malevola, aggressiva del riso, ben diversa dall’ilarità di san Francesco (perciò il riso era condannato dai Padri della Chiesa). Si ride per scaricare una tensione e quasi sempre a spese di qualcuno. Il riso come derisione, scherno, dileggio, che dunque ha bisogno di una vittima sacrificale.

Qui il riso si ricongiunge al sacro (insieme abietto e sublime) poiché Girard ci ha spiegato come Cristo, Agnello di Dio venuto a togliere il peccato, si offre come vittima palesemente innocente per disinnescare il meccanismo del capro espiatorio. I soldati romani che sbeffeggiano Cristo ne hanno anche paura: sentono di essere entrati a contatto con una dimensione oscura, perturbante, numinosa dell’essere (il sacro). L’immagine più blasfema che abbia mai visto in un film è quando in Nazarin di Bunuel il sacerdote in una allucinazione vede nel quadretto appeso alla parete Gesù che improvvisamente ride a squarciagola: sta ridendo di lui, di tutti noi!

Il libro è ricco di spunti critici. Prendiamo la questione del riso e dei freni inibitori. È giusto ridere di una barzelletta sugli ebrei o sui disabili? Ben scelta, in proposito, la barzelletta “nera” del pedofilo assassino che porta la bambina nel bosco tenebroso. Lei “Ho paura”, lui: “Figurati io, che dopo dovrò tornarmene da solo”. Proviamo a commentarla: non direi che si ride (ammesso che si rida) per una complicità con il pedofilo. Piuttosto: si ride del fatto che anche un killer perverso ha paura del buio! Più che mettermi dalla parte del carnefice la barzelletta mi distrae per un momento dalla vittima, e forse un poco disinnesca il meccanismo della ferocia. Diverso il caso della barzelletta (popolare quando andavo a scuola) del bambino con disabilità che dopo aver ottenuto l’agognato gelato, lo contempla per un po’ e poi se lo spiaccica sulla fronte. Qui, obiettivamente, non mi viene da ridere, e la trovo ripugnante.

Non per autocensura o per un sussulto moralistico. Ma perché nella scenetta non vi è alcun “conflitto” tra essere e apparire. In questo caso ci soccorre proprio Pirandello con il suo “avvertimento del contrario”: diventa ridicolo uno che vuole apparire diverso, anzi il contrario, di ciò è (la vecchia signora con i capelli ritinti, il ministro che sbaglia i congiuntivi, il parvenu della cultura che si dà arie di raffinatezza…). Inoltre: il riso rovescia l’ordine e dissacra – “una risata vi seppellirà” (slogan del Movimento del 1977) – ma se la risata volesse rovesciare un ordine giusto e dissacrare non il potere ma, poniamo, la carità verso i sofferenti? Il comico non si può regolamentare. Lucifero ride dal basso, Satana dall’alto.

Il contatto ravvicinato con il comico produce conoscenza e ci rivela la illusorietà della nostra presunta superiorità. Ma siamo certi che generi anche pietas, come sostiene Zippari? Apprezzo la originalità della tesi, ma ipotizzare che la derisione bullistica nasconda un sentimento di empatia mi pare troppo. Va bene: il bullo si accanisce sulla sua vittima in modo ossessivo perché – forse – percepisce il destino tragico della condizione umana stessa (l’irruzione del sacro), e alla fine potrà riconoscere che siamo tutti egualmente fragili e in balia degli eventi (tutti con la paura del buio!). Ma per arrivare a una conclusione del genere, per nulla scontata, occorre un lungo percorso interiore, fatto di doloroso esame di coscienza e allenamento al senso critico su di sé ( attitudini scarsamente presenti nella nostra “società”, secondo quel saggio di Leopardi).

Se agli italiani piace soprattutto ridere ciò potrebbe fare di loro il popolo più saggio del pianeta, e invece si traduce perlopiù in una grottesca coazione ad essere “simpatici” ad oltranza, inesauribili barzellettieri, inclini a nascondere la depressione (dissento radicalmente da Zipparri su un punto solo: quando dedica uno spazio eccessivo al Nome della rosa, romanzo sopravvalutato, esempio di letteratura intesa come videogioco culturale, che appunto nasconde la depressione!).

Ma affinché ciò accada si dovrebbe cogliere il nesso arcaico tra comico e tragico (di cui parlò Socrate nel Simposio), e ritrovare attraverso il riso, anche inizialmente maligno, la via maestra al sacro. Perché il sacro? Cognizione della relatività e imperscrutabilità di ogni cosa, stupore di fronte a un mondo insensato, incongruente, però vitale: l’atto meravigliosamente gratuito della Creazione riflesso poi nella gioia dell’esistenza. La “buona novella” non può essere triste. E se non ci fa ridere quantomeno dovrebbe farci sorridere.