Uno studio sullo stato dell’innovazione in agricoltura in Italia, presentato alla fine del 2019 e condotto da Nomisma, ci rivela che il nostro Paese è ancora lontano dai risultati raggiunti da Paesi Bassi, Francia e Germania. “Lo studio ci riporta un quadro della ricerca italiana con molti nodi e altrettante eccellenze: l’Italia fatica a reggere la competizione con gli altri paesi, certamente per la diversa disponibilità di risorse finanziarie e per la loro migliore organizzazione ma soprattutto per gli oneri burocratici da cui è appesantita”.

A parlare è Deborah Piovan, imprenditrice agricola, dirigente di Confagricoltura, e portavoce del manifesto Cibo per la mente www.ciboperlamente.eu, appello e progetto della filiera agroalimentare italiana sulla necessità di investimenti in innovazione e ricerca.  In questo, purtroppo, l’Italia è agli ultimi posti nell’Unione: sia di quelli pubblici (pari allo 0,52% del Pil con una media europea dello 0,72%) che di quelli privati, in venture capital, entrambi “ingessati dal peso di una burocrazia fuori controllo”. Quanto all’ambito agricolo italiano, Nomisma restituisce un quadro peculiare: le nostre imprese sono mediamente più piccole, tre-quattro volte inferiori rispetto a Germania, Francia e Regno Unito. Inoltre, una famiglia rurale su quattro non può accedere alla Rete, dunque c’è un problema di digital divide.

“Anche questo, influisce sulla crescita e sulla fruibilità dell’innovazione”, spiega Piovan: “Considerando che siamo la patria della dieta mediterranea, patrimonio mondiale dell’Unesco, e che potremmo diventare leader nel progresso agroalimentare in Europa, dovremmo certamente finanziare di più tutta la filiera agroalimentare: ne beneficeremmo, tra l’altro, più di tutti, anche perché siamo il Paese che più di altri subisce una serie di svantaggi dai cambiamenti climatici e abbiamo bisogno di innovazione per farvi fronte”. Dal punto di vista dei consumatori, sembrerebbe esserci una contraddizione tra innovazione e tradizione che, secondo Piovan, è solo apparente: “Il marketing che racconta il cibo ‘buono e sano’ per venderlo fa il suo mestiere ed è legittimo: il problema è che anche in conseguenza di un certo marketing, i consumatori si fidano di più dei colossi della grande distribuzione e non del lavoro degli agricoltori che – italiani ed europei – operano nel quadro di regole più severo al mondo”.

Il cibo che produciamo, dunque, è oggi più sano, sicuro e accessibile a tutti. “A chi rimpiange il cibo della nonna”, spiega Piovan, “direi che non dobbiamo scordarci che le nonne hanno patito la fame. Dunque, ben venga la tradizione – non solo perché è ciò da cui veniamo ed è la base del nostro made in Italy – ma soprattutto perché fossilizzare le nostre tradizioni equivale a condannarle a morte”. È proprio per preservare quelle tradizioni, che dobbiamo innovarle, suggerisce Piovan. Che si domanda: “Come possiamo continuare a produrre i nostri prodotti tradizionali in un clima che si sta tropicalizzando?” La risposta è sempre la stessa: dobbiamo innovare e rinsaldare la collaborazione tra il mondo degli agricoltori e quello della ricerca.

I marchi percepiti di qualità – chilometro 0, biologico – sono un’interessante fonte di reddito per chi li vende, soprattutto per i supermercati e poi per gli agricoltori. È vero, poi, che aiutano il consumatore a sentirsi più verde. “Purché”, avverte, “non finiscano con l’essere un freno a pratiche dell’agricoltura più sostenibili: ad esempio, proprio l’agricoltura biologica può servirsi a proprio vantaggio delle biotecnologie applicate al miglioramento genetico.
Spalancando le porte all’innovazione, renderemmo tutto il processo di produzione più sostenibile, dunque. Eppure la Commissione Europea ha recentemente presentato le sue due Strategie, Farm to Fork e Biodiversity, all’interno della tabella di marcia verso il Green Deal, e ha posto obiettivi ambiziosi (agricoltura biologica dal 7,5% al 25% della superficie coltivata, diminuzione di agrofarmaci del 50% e del 20% dei fertilizzanti) ma “privi di una valutazione di impatto ex ante”. Obiettivi da implementare entro il 2030 per educare gli europei a diete più sane e ridurre gli sprechi. Una gigantesca contraddizione.

“Ci viene chiesto di ridurre gli input produttivi”, spiega Piovan. “Questo significa rinunciare a una parte degli strumenti utili a proteggere le nostre colture dagli insetti: dunque, minore produzione, perdita di cibo che si traduce in uno spreco e, di conseguenza, nella maggiore dipendenza dalle produzioni estere. Eppure uno studio, uscito recentemente su Nature, mostra come in 25 anni, dal 1990 al 2014, le importazioni europee abbiano stimolato la deforestazione nei paesi partner commerciali per più di 11 mln di ettari, in gran parte foreste tropicali, in Sud America e nel Sud Est Asiatico: una grande perdita in biodiversità ma anche un impatto antropologico per le popolazioni indigene. “Noi dobbiamo sapere che quello che non produrremo più a sufficienza, dovranno produrlo altri con i loro standard: questo significa aumentare la nostra dipendenza dall’estero, significa metterci in competizione con popolazioni più povere”. E inquinare di più.

Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi