Bisogna prendere atto che la materia delle intercettazioni sul piano legislativo costituisce una storia senza fine. Con D.L. n. 105/23 convertito in L. 137/23 si è proceduto ad una riforma del procedimento d’intercettazione allo scopo di tutelare profili di riservatezza delle conversazioni. Nel perseguire tale obiettivo si sono modificati i commi 2 e 2 bis dell’art. 268 c.p.p. prevedendo che, durante l’ascolto, la redazione del verbale è riservata soltanto al contenuto delle conversazioni rilevanti e, in caso di irrilevanza del dialogo captato, occorre limitarsi ad annotare: «la conversazione omessa non è utile alle indagini».

In particolare il comma 2 bis precisa che su tale attività il Pubblico Ministero “dà indicazioni e vigila” sulla conforme redazione dei verbali ai criteri normativi in discorso cui si aggiunge l’esigenza di eliminare le “espressioni lesive della reputazione”. L’opzione legislativa di fatto introduce un potere di selezione anticipato che si inserisce al momento dell’ascolto. A fronte di tale situazione non è difficile pronosticare come tale potere sarà di fatto affidato agli organi di Polizia giudiziaria. Chiunque abbia una minima consapevolezza dell’impatto quantitativo del materiale d’intercettazione comprende come l’attività di vigilanza del P.M sulla redazione dei verbali sia destinata a diluirsi nella loro quantità. Il rilievo pone un problema in ordine a quale soggetto siano effettivamente affidate le operazioni di intercettazione;

Non deve inoltre sfuggire come gli indicati criteri di redazione dei verbali pongano il difensore in una difficile se non impossibile individuazione delle conversazioni favorevoli o utili alla difesa. E’ vero che il precetto normativo impone all’ufficiale operante di segnalare anche i dialoghi a favore dell’indagato ma, è noto, come tale dovere spesso e volentieri rimanga sulla carta. Il tutto viene reso più complesso dall’immediata trasmissione del materiale d’intercettazione al P.M. per la conservazione nell’archivio riservato a cui il difensore può accedere entro una tempistica indicata dall’organo di accusa ma solo per procedere alla consultazione, con esclusione del diritto di copia. Scaduto tale termine il giudice “dispone l’acquisizione delle conversazioni” che non «appaiono irrilevanti».

La procedura coniata non fa i conti con la quantità di intercettazioni che usualmente è presente nei processi, oltre che con le problematiche più strettamente operative di accesso all’archivio riservato. La situazione pone il difensore nella impossibilità di una consapevole valutazione del materiale di intercettazione e quindi, per forza di cose, il suo intervento non potrà mai essere «effettivo» con il risultato che, di fatto, la selezione preventiva operata dal P.M. costituirà la base del confronto innanzi al giudice. Contesto che affida ad un organo parte l’attività di cernita posto che è l’unico a conoscere dettagliatamente i contenuti delle intercettazioni. Il rilievo rimanda anche all’inefficacia di un potere di controllo del giudice posto che anch’esso, similmente al difensore, deve in tempi brevi e senza l’ausilio di un verbale di intercettazioni completo giudicare la rilevanza delle stesse; giudizio che, prevedibilmente, si adagerà sulla preselezione operata dal P.M..

In tal modo, però, si inverte il rapporto controllore-controllato, l’organo della giurisdizione di fatto, nel suo operare, è assoggettato a quello dell’azione. In sostanza per tutelare la privacy non si è ritenuto di agire in via repressiva nei confronti di chi viola il segreto o il divieto di pubblicazione ma si è preferito neutralizzare i diritti della difesa e la stessa possibilità di un concreto controllo giurisdizionale. A tal fine sarebbe forse stato più opportuno includere nella sfera di responsabilità amministrativa dell’Ente il reato di cui all’art. 684 c.p. nella consapevolezza che la stampa è sacra ma solo se rispetta le regole e non vìola la presunzione di innocenza.

Filippo Dinacci

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