Lo scenario internazionale dopo il G20
Intervista a Giampiero Massolo: “G20, G7 e G8: ma nessun governo ha in mano le chiavi del mondo”
Lo scenario internazionale dopo il G20 di Roma. Il Riformista ne discute con chi di consessi internazionali di tale livello li ha “frequentati” e preparati: l’ambasciatore Giampiero Massolo. Presidente di Fincantieri S.p.A. (dal 2016) e Presidente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI (dal 2017), l’ambasciatore Massolo, diplomatico di carriera, ha svolto funzioni di Direttore Generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza presso la Presidenza del Consiglio (2012-2016), di Sherpa del Presidente del Consiglio dei Ministri per i Vertici G8 e G20 (2008-2009), di Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri (2007-2012). L’ambasciatore Massolo è titolare di corsi sui temi della sicurezza e delle relazioni internazionali presso la School of Government dell’Università LUISS di Roma e presso la Scuola di Affari Internazionali-Sciences Po a Parigi.
In una intervista a questo giornale, l’ambasciatore Sergio Romano ha dato questa definizione del G20: i Paesi che lo compongono ambiscono a essere l’Onu di quelli che contano. Lei come la vede?
Il mondo è da sempre alla ricerca di una ricetta per la governance globale. È passato dalla Guerra fredda e quindi da un ordine mondiale basato sull’equilibrio del terrore tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, a un mondo unipolare retto su di un ordine americano, e successivamente, attraverso le crisi finanziarie del 2008-2009 e gli anni seguenti e poi soprattutto con la pandemia, ad un sostanziale “G0”, cioè un mondo in cui nessun Paese in realtà è in grado di definire da solo l’agenda globale. In parallelo si sono moltiplicati i formati per cercare di realizzare questo sogno del governo mondiale. Tutti imperfetti. Abbiamo il G7 dei Paesi dell’Occidente. Abbiamo il G20 che si allarga fino a comprendere i Paesi emergenti. Nessuno di questi formati di per sé realizza un governo mondiale. Una cosa è certa: di fronte a un Onu il cui maggiore meccanismo decisionale, che è il Consiglio di Sicurezza, è bloccato dai veti contrapposti, il G20 è quanto più si avvicina in questo momento all’idea di un tentativo di fare ordine negli affari del mondo, perché mette intorno al tavolo molti dei Paesi che sono in questo momento quelli che contano sulla scena internazionale, senza che nessuno, da solo, sia in grado di stabilire i destini del mondo e anche insieme, per la verità, riescono poco a farlo.
Al G20 di Roma erano assenti il presidente cinese, Xi Jinping, e quello russo, Vladimir Putin. Si sono fatti sentire in video conferenza, ma non è la stessa cosa. E l’assenza si è ripetuta a Glasgow per la Cop26. Come leggere questa presenza-assenza?
Io non ingigantirei il significato dell’assenza. Perché il presidente cinese è ormai da oltre un anno e mezzo che non si muove dalla Cina, e lo stesso Putin si è mosso molto poco. Direi che in entrambi i casi ma soprattutto nel caso russo, è un po’ un modo per marcare una propria potenza di fronte allo scenario interno, alla scena nazionale, e cioè io posso anche non andarci… In realtà, poi nella sostanza la modalità di avere una presenza l’hanno trovata e di far sentire la loro voce, in alcuni casi contribuendo anche abbastanza costruttivamente ai compromessi, come nel caso cinese, questo alla fine si è verificato. Non arriverei ad ingigantire il significato di quell’assenza in presenza. Certo, se poi a pandemia conclamatamente passata, ci dovesse essere ulteriormente una cosa di questo genere, allora a quel punto saremo su di una confrontation che, questa sì, non farebbe presagire molto di buono.
Il G20 di Roma si è chiuso con una ponderosa Dichiarazione finale, ma quanto ad impegni assunti, soprattutto su questioni cruciali come la lotta al cambiamento climatico, sono stati proiettati nel 2050 e oltre. Come si spiega questa afasia temporale?
Si spiega perché, sottostante alle dichiarazioni che riguardano le emergenze, c’è poi la realtà dei fatti. E la realtà dei fatti nasconde modelli di sviluppo, interessi economici, assetti istituzionali che sono molto diversi e che quindi in qualche modo finiscono alla fine per contare. Lasciata ai governi, la gestione degli affari del mondo sconta necessariamente una differenza di interessi e anche di esigenze obiettive, con la quale bisogna fare i conti. Una cosa incoraggiante è che si è andata sviluppando una forte corrente di opinioni pubbliche, di società civile, che si fanno sentire molto più che in passato, e poi anche una crescente disponibilità delle aziende a coinvolgersi, non facendo mancare finanziamenti: ovviamente questo si basa anche sulla profittabilità crescente di quel tipo di investimenti, non è soltanto filantropia, ma tant’è. Usiamo comunque questa disponibilità. Questo fa pensare che si possa in qualche modo concepire, riscrivere le regole della collaborazione multilaterale, per includere più soggetti, alcuni dei quali diversi dagli Stati e dai governi propriamente detti, e che quindi si possano aprire degli spazi di collaborazione, mossi anche dalle opinioni pubbliche, che prima erano più difficili da sviluppare.
Vorrei che restassimo ancora sul Gigante cinese. Negli Stati Uniti cambiano i presidenti ma, al di là dei toni differenti, ciò che sembra essere un elemento costante è l’ossessione nei confronti della Cina. La metto giù un po’ brutalmente: ma la Cina, soprattutto per l’Europa, è una minaccia o una opportunità da coltivare?
Diciamo che la Cina è un avversario strategico dell’Occidente. E pensare di fare fronte in maniera individuale, vuoi come singoli Paesi europei, vuoi come Europa e basta, alla Cina, è manifestamente poco concepibile. L’avversario strategico si affronta tutti insieme, con un Occidente compatto, dove Stati Uniti, democrazie asiatiche e Paesi europei, fanno ciascuno la propria parte. Detto questo, un’alleanza è un’alleanza anche perché talvolta gli alleati hanno delle sensibilità diverse. L’idea che i Paesi europei e le democrazie asiatiche facciano i bravi alleati, e cioè facciano i compiti a casa, li autorizza poi a parlare con Washington in modo molto franco, segnalando che in taluni casi le sensibilità sono diverse. L’avversario è strategico, però nell’affrontarlo va tenuto nel dovuto conto il fatto che la percezione della minaccia è diverse tra Washington e, faccio per dire, Manila, piuttosto che fra Roma e, faccio per dire, Riga, in questo caso nei confronti della Russia.
Il G20 di Roma ha segnato l’uscita di scena dai grandi consessi internazionali, della cancelliera tedesca Angela Merkel, ed è anche stata la prima volta, da leader di governo, di Mario Draghi. È una forzatura giornalistica parlare di un passaggio di consegne in chiave europea?
L’autorevolezza di Mario Draghi è indiscussa. Il fatto che la Germania si troverà, con chi succeda ad Angela Merkel, in una fase di transizioni, e quindi ci vorrà un momento di tempo perché il nuovo governo si rimetta in movimento e possa guadagnare progressivamente in autorevolezza, è altrettanto vero. Certo, la Germania resta la Germania, con la sua potenza, la sua popolazione, la sua industria e lo stato di avanzamento della sua economia. E l’Italia ha di fronte a sé un compito molto importante, che è quello di rimettersi in carreggiata adoperando bene e rapidamente le risorse del Pnrr. L’autorevolezza del presidente del Consiglio aiuta ma è il sistema-Paese tutto intero a dover chiudere il gap che ancora lo separa con altre e più efficienti democrazie occidentali.
Al di là dei G a numerazione variabile, e con l’Onu che nonostante se ne parli da decenni non riesce a riformare se stessa, in che modo, a suo avviso, dovrebbe declinarsi il tanto evocato multilateralismo?
Non lasciandolo solo nelle mani dei governi, ma favorendo una spinta dal basso. Una spinta che venga dalla società civile, dagli attivisti e quant’altro, perché si riesca a fare del multilateralismo una vera e propria iniziativa che coinvolga tutti i soggetti interessati. In questo modo, cioè mobilitandosi obiettivo per obiettivo, vi è speranza di far sì che il multilateralismo riprenda la sua efficacia, cosa che in questi ultimi anni non è stata evidente.
A partire dalla sua lunga esperienza diplomatica, e dagli importanti incarichi da lei ricoperti, le chiedo: diplomazia degli affari e diplomazia dei diritti sono tra loro davvero inconciliabili?
Non sono inconciliabili se si pensa che le decisioni relative all’interesse nazionale sono un combinato disposto di una pluralità di elementi e rispondono a una pluralità di logiche, di interessi, di sensibilità, di valori. Le democrazie occidentali si distinguono proprio dal fatto che includono nelle decisioni di interesse nazionale anche una connotazione valoriale. Sarebbe però impensabile, ritenere di decidere soltanto in base a un criterio piuttosto che a un altro. È impensabile far valere solo gli interessi economici, ed è impensabile far valere soltanto i valori. È una sintesi che va fatta. E la sintesi spetta ai governi. E i governi vengono giudicati dai loro parlamenti e, in ultima analisi, dalle loro opinioni pubbliche, per la qualità della sintesi che fanno.
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