Il fallimento del G20 ha un nome: si chiama Xi, il presidente cinese con sogni imperiali. È così che è venuta fuori questa cosa abbastanza idiota di fissare al 2050 l’ambizioso ritorno alla normalità climatica. Nei giornali e telegiornali è stato attutito in modo piuttosto ipocrita l’atteggiamento del presidente cinese che ha detto due cose gravi.

La prima è che la Cina non ridurrà affatto le sue emissioni di anidride carbonica che sono le più alte del mondo. La seconda è che la Cina dedicherà la sua straordinaria tecnologia d’avanguardia per costruire e vendere tecnologia sofisticata: macchinari, veicoli, computer e sistemi di produzione energetica e riduzione di CO2, realizzando profitti enormi. Che il presidente cinese sia un uomo non esente da un certo amore per la brutalità è dimostrato da molti segnali. Uno di questi è stato il suo improvviso rifiuto del carbone australiano per una serie di ripicche contro Canberra. In geopolitica non si considera quasi mai il “fattore umano”, così battezzato da quel genio di Graham Greene che si intendeva sia di intelligence che di emozioni. Xi è un presidente forte, ma con molti nemici, specialmente nel Partito comunista che pullula di complotti e cordate.

Durante il suo primo mandato, Xi cominciò una silenziosa ma brutale purga usando la commissione centrale per la disciplina e riuscì a far fuori i rivali più minacciosi, indebolire le fazioni più forti e insediare i suoi protetti in tutti i gangli del potere. Uno dei suoi protegé più potenti è Zhao Leji, che usa il pugno di ferro contro tutti i dissidenti.
Più o meno fra un anno il partito comunista cinese dovrebbe riunirsi a Congresso come fa ogni dieci anni. La posizione attuale di Xi è forte ma non invulnerabile. Di conseguenza il vertice del partito ha come primo obiettivo quello di sopravvivere e proseguire nel comando. In Cina il dibattito è molto aperto e si riverbera anche nei giornali di partito. Si comprende da queste rivelazioni che la strategia scelta per mantenere il potere è quella di alzare sempre il tono della sfida contro i paesi del contenimento anticinese guidato da americani e giapponesi, sfidando il rischio di confronti armati che sono sempre più probabili. In primo piano c’è sempre l’isola autonoma di Taiwan, l’antica colonia portoghese di Formosa. I taiwanesi sono gente poco incline alla guerra, benché il loro Paese abbia già oggi un discreto armamento. Xi ha ordinato da circa un mese dei sorvoli a bassa quota su Taiwan violando uno spazio aereo che non ha alcun valore legale (l’intera isola non ha alcun valore legale, benché per un breve periodo fosse stata come membro dell’Onu l’unica rappresentante della Cina).

Morire per Taiwan è diventato lo slogan delle cancellerie europee e dei “Five Eyes” (Usa, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda) riecheggiando il famoso “morire per Danzica?”, la città tedesca in Polonia per la quale Hitler voleva i diritti di accesso minacciando la guerra che poi comunque scatenò. Taiwan è un’isola preziosissima per alcuni materiali ferrosi che si trovano soltanto sul suo suolo e che sono indispensabili per fabbricare cellulari, automobili e satelliti della prossima generazione. I giapponesi hanno dichiarato di considerare un eventuale assalto a Taiwan da parte cinese come un casus belli. E Pechino ha finora risposto picche, intensificando il numero degli assordanti sorvoli che rendono insopportabile la vita nella capitale Taipei. La gente di Taiwan non è molto preparata a combattere perché ha una tradizione di sottomissione e di pacifismo.

Prima della Seconda guerra mondiale l’isola apparteneva ai giapponesi che le iniettarono ampie dosi della loro cultura: culti, abitudini, uso della lingua e molti matrimoni misti. Subito dopo la guerra il generalissimo Chiang Kai-shek, battuto dall’esercito popolare di Mao Zedong, si rifugiò con quel che restava della sua armata a Taiwan e ne diventò l’implacabile dittatore applicando la legge marziale a un piccolo popolo estraneo ai fatti della vita continentale ma fra cui si nascondevano moltissimi agenti di Mao. Anche oggi Taiwan pullula di spie e anche di fautori dell’unificazione con Pechino. Ma prendere Taiwan è dal punto di vista militare un enorme problema, non importa quanto l’invasore sia forte. Per prendere Taiwan, sia pure dopo un pesantissimo bombardamento che ne disarticoli le difese, occorre che l’invasore metta in mare dei vascelli per trasporto truppe molto veloci e ben armati, che comunque impiegherebbero molte ore prima di toccare la costa dell’isola esposti a un intenso fuoco di sbarramento. E durante quel lungo tempo fra l’inizio dell’operazione e lo sbarco, le potenze presenti con le loro flotte nel Mare del Sud della Cina (che malgrado il nome non appartiene alla Cina) avrebbero il tempo di intervenire attaccando le navi da sbarco e praticamente determinando lo stato di guerra con la Repubblica Popolare Cinese e il suo Esercito di Liberazione Popolare, su cui il presidente Xi ha il comando assoluto come anche sui potentissimi e ben organizzati servizi segreti.

Xi ha curato in modo particolare l’armata popolare facendone un suo strumento personale insieme alla polizia segreta: Xi ha eliminato il vertice dei generali, ripetendo lo schema usato da Stalin quando purgò l’Armata Rossa facendo fucilare migliaia di alti ufficiali. Lo scopo di Xi era l’eliminazione di sacche di corruzione dentro l’esercito e la implacabile operazione impose il trasferimento di molte migliaia di soldati e sottufficiali sospettati di corruzione. Dopo di che compì un altro passo che gli valse nell’opposizione interna l’accusa di “bonapartismo” la stessa di cui si era servito Stalin per liquidare Tuchačevskij, assumendo la presidenza della potentissima Commissione centrale di controllo militare di cui dispone fin dal 2012. Questo potere di uffici che non erano stati mai di competenza dei precedenti segretari generali gli hanno dato il potere di agire come ideologo e con potere di nomina di alcuni suoi protetti negli organi di propaganda e nei media. Ciò ha permesso finora al Presidente di rendere ogni sua decisione un elemento di una integrata visione ideologica e dogmatica. Xi si è impegnato a prendere Taiwan costi quel che costi, e questa è una parola d’ordine, inutilmente sconsigliata da settori del partito. Qual è la conseguenza di questa graduale ma irreversibile presa del potere da parte del Presidente in quei settori che nel passato non appartenevano al capo del partito?

La più pericolosa conseguenza è che le parole di Xi rispetto alla questione taiwanese non sono soltanto di natura politica, ma divina. Xi ha spiegato molte volte grazie alla sua posizione di ideologo ufficiale che il comunismo cinese respinge la democrazia come forma di governo, visto che la sua natura e la sua storia consigliano come obiettivo finale l’armonia, che è un fondamentale concetto confuciano. Avendo annunciato il suo proposito di passare all’azione su Taiwan, Xi ha pochissimo margine di manovra per risolvere la questione per via diplomatica o comunque politica. Xi viene descritto come un uomo troppo sicuro di sé animato da un profondo disprezzo per la civiltà occidentale, sentendosi l’ultimo imperatore cinese di una storia che dura da cinquemila anni. Questi aspetti ideologici e le dichiarazioni dal tono irreversibile danneggiano le speranze di una soluzione pacifica, sulla quale stanno da due anni lavorando tutte le cancellerie del mondo. L’Australia si è assunta il compito di pattugliare le acque di Taiwan con sottomarini dotati di tecnologia avanzata che soltanto gli Stati Uniti possono fornir loro.

Di qui l’incidente delle settimane scorse, quando i francesi scoprirono che gli australiani avevano cancellato il contratto per acquistare i loro sottomarini, preferendo quelli americani a propulsione nucleare. Ne è derivata una crisi che poi si è risolta pacificamente al G20 di Roma quando il presidente Biden ha detto al presidente francese Macron che si scusava per la scortesia e la brutalità. Pace fatta: la Francia vuole la sua parte di influenza ed è già presente con due navi da guerra. Ma l’Australia è sempre più convinta di dover eliminare o bloccare il nemico cinese dopo aver subito le angherie di Pechino per quasi un decennio. La questione è australiana è importante per capire la volontà imperialistica della Cina. L’Australia è sempre stata tra le colonie britanniche la perla dell’impero. Ha mandato i suoi figli a morire disciplinatamente sui fronti europei dove l’antica madrepatria la chiamava.

Poi Londra perse l’India e abbandonò gradualmente le rotte orientali. Fu così che anno dopo anno il governo. Di Canberra si trovò naturalmente costretto ad allacciare rapporti sempre più stretti con Pechino che in breve tempo occupò letteralmente quasi tutte le aziende australiane influenzando la vita pubblica e politica, comperando giornali e controllando sempre più strettamente tutte e le strutture. Quando gli australiani si sono finalmente ribellati, Xi li ha castigati rifruttando il loro carbone, mettendo però sé stesso in una situazione estremamente grave perché la Cina è affamata di energia ed è pronta a immettere nell’atmosfera milioni di tonnellate di gas e fumi per far riprendere le proprie industrie. Ecco, dunque, che Xi ha dovuto incassare una sconfitta: l’amica Australia era diventata prima neutrale poi dichiaratamente schierata nel campo americano, con una politica estera a sua volta aggressiva e desiderosa di regalare i conti. Non è la migliore delle situazioni e vedremo prestissimo gli sviluppi di una contrapposizione così esplosiva.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.