Il prossimo 1 luglio compie 100 anni il Partito comunista cinese, il più potente e longevo del pianeta. C’è da chiedersi: a cosa si deve questo successo? Perché tra il 1989 e il 1991 l’Unione sovietica si sgonfia e, con essa, muore il Pcus, mentre il Pcc sopravvive? La ragione è soprattutto economica.

Ne è convinto, per esempio, il Financial Times, che nei giorni scorsi ha ricordato la figura di Cao Siyuan, un alto funzionario di partito, ricordato in Cina come “Mr Bankruptcy” ovvero “Il Signor Fallimento”. Fu lui a concepire negli anni 80 la prima normativa sul fallimento, che favorì la transizione della Cina dal comunismo maoista all’attuale sistema ibrido di autoritarismo di mercato. E gettò le basi per lo straordinario decollo economico del gigante asiatico. Come ricorda James Kynge su Ft, il motto di Cao era: «Se le riforme sono troppo veloci, c’è il caos. Se le riforme sono troppo lente, c’è stagnazione». Senza la liberalizzazione dei controlli sull’economia, la crescita può rallentare e alla fine fermarsi. Ma quando il ritmo della liberalizzazione corre troppo veloce, può seguire il caos sociale e politico. Proprio questa è, dopo Mao, la navigazione difficile del Partito comunista cinese tra i due scogli della crescita e del controllo. Spesso i due estremi si contraddicono: aumentare il peso dell’uno significa sacrificare il peso dell’altro. Ma lo sviluppo eccessivo di entrambi – che è l’orizzonte dell’autocrate Xi Jinping – potrebbe provocare, prima o poi, un cortocircuito del sistema.

La normativa fallimentare di Cao, approvata nel 1986, faceva parte di un insieme di riforme che hanno messo a dura prova la crescita, contribuendo all’inflazione e alla crescente ondata di corruzione. Da qui le proteste popolari in molte parti del paese nel 1989. Cao fu arrestato proprio durante i moti di Tienanmen. In quel momento era il consigliere di Zhao Ziyang, primo ministro dal 1980 al 1987 e segretario generale del Pcc dal 1987 al 1989. Zhao, che era considerato un “riformista” per aver contribuito all’introduzione dell’economia di mercato in Cina, nonché oppositore della corruzione diffusa nell’apparato statale del paese, fu epurato nel 1989 per essersi opposto all’imposizione della legge marziale. Ma quelle riforme portarono la Cina al boom economico più grande e più lungo della sua storia. All’inizio degli anni 80, il Pil annuo del Dragone era di soli 195 dollari pro capite e la Cina era uno dei paesi più poveri del mondo. Quasi 40 anni dopo, il suo Pil è aumentato di 75 volte: fino a 10.261 dollari pro capite, nel 2019.

La Cina potrebbe diventare, a spese degli Usa, la più grande economia del mondo entro un decennio, concludendo la rincorsa avviata nel 1978 con la riforma economica di Deng Xiaoping, leader supremo della Cina di fatto dal 1978 al 1992, autore di una serie di liberalizzazioni: decollettivizzazione dell’agricoltura, apertura agli investimenti stranieri, abolizione dei controlli sui prezzi, ritiro dello stato da alcuni settori economici. Deng cercò anche di impedire la dittatura capricciosa e brutale del Pcc, non solo con l’apertura all’economia di mercato, ma anche con alcune riforme istituzionali: il limite di due mandati quinquennali per il presidente della Cina, la promozione di una “leadership collettiva” in contrasto con la dittatura di un solo uomo, alcune tutele costituzionali dei diritti civili degli individui.
Oggi, Xi Jinping ha mantenuto tutti i vantaggi economici dell’era Deng, abolendo però tutti i contrappesi costituzionali.

Così, tramite il Pcc che si appresta a festeggiare il centenario, Xi esercita un controllo assoluto del paese. In più, con il genocidio degli Uiguri e la soppressione delle libertà civili a Hong Kong (la scorsa settimana ha chiuso l’Apple Daily, l’ultimo quotidiano libero della metropoli), la morsa del regime diventa sempre più forte. Ritorna allora la domanda di Cao: crescita e controllo riusciranno a convivere? E quale sarà la sorte del Partito comunista più potente e longevo del mondo?

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