Il Parlamento europeo ha approvato nel gennaio scorso il “Green Deal”, il quadro di riferimento per lo sviluppo sostenibile dell’Europa “trainato” dalla decisione di raggiungere la “neutralità climatica” entro il 2050 con l’azzeramento delle emissioni di tutti i gas a effetto serra, che dovranno essere ridotte di almeno il 55% entro il 2030 come primo step del processo di decarbonizzazione dell’economia europea.
Il 4 marzo 2020 Ursula von der Leyen, presentando il primo “pilastro” del Green Deal, la Climate Law, ha detto: «Nel 2050 i miei figli saranno più giovani di quanto sia ora io. Ho un’idea dell’ambiente nel quale vivranno, e questa idea è abbastanza preoccupante se non agiamo ora. E la scienza è molto chiara: il clima è parte dell’ambiente naturale nel quale viviamo, e questo ambiente è gravemente minacciato». Il 22 settembre 2020, parlando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il Presidente Xi Jinping ha annunciato l’impegno della Cina a raggiungere la “neutralità di carbonio” entro il 2060, ovvero l’azzeramento delle emissioni di CO2 provocate dall’impiego dei combustibili fossili.

Xi Jinping ha detto che «l’umanità non può continuare a ignorare i crescenti messaggi di allarme dalla natura», e forse aveva in mente gli eventi climatici estremi di agosto e settembre nel sud e nel centro della Cina con le inondazioni provocate dai grandi fiumi Yangtze River e Yellow River e da altri 751 fiumi tributari, coinvolgendo almeno 70 milioni di persone. L’annuncio di Xi Jinping all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rappresenta un cambio significativo nel meccanismo del negoziato internazionale sui cambiamenti climatici: per la prima volta la Cina – come Paese ancora in via di sviluppo – assume un impegno unilaterale senza porre condizioni e senza richiedere almeno un impegno analogo alle economie sviluppate, responsabili delle emissioni “storiche” negli ultimi 150 anni e dalle quali dipende in gran parte l’attuale concentrazione di CO2 in atmosfera.

La crisi climatica è il contesto per comprendere la portata e il senso dell’urgenza delle scelte dell’Europa e della Cina.

I dati più aggiornati sulla crisi climatica e sugli effetti dell’aumento della temperature sono forniti dalla agenzia Usa per gli Oceani e l’Atmosfera (Us Noaa) e dalla Nasa. I Global Climate Reports di Noaa mettono in evidenza che nei primi 8 mesi del 2020 la temperatura media del pianeta è stata superiore di 1°C rispetto ai valori medi del XX secolo. E sempre i rapporti della Noaa nel 2020 rilevano la crescita costante della concentrazione di CO2 in atmosfera (dovuta in gran parte all’uso dei combustibili fossili) ormai al di sopra del “limite di sicurezza” di 400 parti per milione per contenere l’aumento della temperatura. Mentre le osservazioni della Nasa pubblicate nel maggio del 2020 rilevano che gli effetti dell’aumento della temperatura sullo scioglimento dei ghiacci al Polo Nord sono molto più intensi di quanto stimato precedentemente, e sono coerenti con gli eventi del giugno 2019 in Groenlandia (2 miliardi di tonnellate di ghiaccio liquefatte in un solo giorno) e con lo scioglimento del permafrost nel nord ovest della Russia.

Il presidente Putin, sempre scettico sui cambiamenti climatici, ha lanciato un allarme sui rischi per le città e le infrastrutture costruite sul permafrost, dopo i primi crolli degli edifici e la perdita di migliaia di tonnellate di petrolio dai serbatoi di un impianto collassato. Inoltre un rapporto appena pubblicato dall’Università di Delft nei Proceedings of the National Academy of Sciences, mette in evidenza una forte accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai Pine Island e Thwaites nel mare di Amundsen, nella regione a sud ovest dell’Antartico. Nelle ultime due settimane questo rapporto, ripreso da tutta la stampa internazionale, lancia l’allarme sulla velocità dell’innalzamento del livello degli oceani per lo scioglimento dei ghiacciai del Polo Sud e sui conseguenti rischi per le zone costiere del pianeta densamente abitate.  Secondo Ice Sheet Model Intercomparison Project (Ismip6), coordinato dalla Nasa, se l’aumento delle emissioni continuerà al ritmo attuale, lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antardide sarà responsabile dell’aumento medio di almeno 38 centimetri dei livelli del mare entro il 2100.

Europa e Cina, due impegni unilaterali nella stessa direzione

L’Europa

Il Parlamento europeo ha condiviso la scelta di costruire un continente climate-neutral entro il 2050, avviando un percorso normativo destinato ad accelerare il processo di decarbonizzazione dell’economia europea in corso da almeno 10 anni con modifiche profonde nel sistema energetico, dei trasporti, dell’industria, dell’agricoltura, sostenute da misure fiscali per usare il prezzo del carbonio come leva dello sviluppo e diffusione di tecnologie e sistemi a emissioni zero. Una scelta unilaterale, senza la richiesta di misure analoghe da parte delle altre grandi economie, nella convinzione che la neutralità climatica è un obiettivo coerente con la crescita e la competitività dell’economia europea. Una sfida possibile ma difficile, come emerge dalla valutazione di impatto sul 2030 Climate Target Plan, effettuata il 17 settembre 2020 dagli uffici della Commissione europea. Il rapporto, senza giri di parole, identifica le molte barriere e contraddizioni nelle regole europee in vigore, a partire dalla direttiva sulla tassazione dell’energia (Etd), che non è cambiata dal 2003 ed è considerata obsoleta.

Nello stesso tempo il rapporto sollecita regole e misure adeguate per superare le barriere normative e di mercato che rallentano la realizzazione delle soluzioni già disponibili a basse emissioni di carbonio con costi competitivi o lo sviluppo di quelle innovative (biocarburanti avanzati, idrogeno o combustibili elettronici, cattura e stoccaggio del carbonio con riuso). Secondo il rapporto, il superamento di queste barriere libera risorse e rende competitive le soluzioni a basse emissioni o a emissioni zero. Ursula von der Leyen ha così sintetizzato la scelta dell’Europa: «Aiuteremo la nostra economia a diventare leader globale muovendosi prima e velocemente. Mostrando al resto del mondo come essere sostenibili e competitivi, possiamo convincere altri Paesi a muoversi con noi» .

Questa valutazione è condivisa dalla Energy Transitions Commission (Etc), una “coalizione di leader globali nei settori dell’energia, dell’industria, della finanza”, di cui fa parte il Ceo di Snam Mario Alverà, che ha pubblicato il rapporto “Making Mission Possible” preparato con la partecipazione di McKinsey & Company, Rocky Mountain Institute, Bloomberg Nef, Agenzia Internazionale dell’Energia. Il rapporto mette in evidenza i grandi cambiamenti nelle tecnologie e nei costi delle alternative ai combustibili fossili, oggi spesso più convenienti delle tecnologie tradizionali. E le previsioni, se non ci saranno barriere normative e di mercato, suggeriscono che entro la fine del decennio la produzione di elettricità a emissioni zero sarà competitiva con quella prodotta con i combustibili fossili. Secondo il rapporto, le economie sviluppate possono raggiungere l’obiettivo della decarbonizzazione entro il 2050, e quelle emergenti e in via di sviluppo entro il 2060. «La decarbonizzazione costerà entro il 2050 il 5% del prodotto interno lordo globale, un costo irrilevante rispetto ai catastrofici effetti di un cambiamento climatico fuori controllo».

La Cina

La Cina sembra aver condiviso le prospettive indicate dalla Presidente della Commissione europea e dalle valutazioni di Making Mission Possible. L’annuncio di Xi Jinping all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rappresenta un cambio significativo nel meccanismo del negoziato internazionale sui cambiamenti climatici, perché per la prima volta la Cina – come Paese ancora in via di sviluppo – assume un impegno unilaterale senza porre condizioni e richiedere aiuti alle economie sviluppate, responsabili delle emissioni “storiche” negli ultimi 150 anni dalle quali dipende in gran parte l’attuale concentrazione di CO2 in atmosfera. L’impegno della Cina è una sfida tecnologica ed economica molto più complessa e difficile di quella europea. L’economia cinese dipende ancora oggi per l’85% dai combustibili fossili, nonostante i progressi realizzati nello sviluppo delle fonti rinnovabili e della sostituzione del carbone negli usi finali di energia.
Ma nello stesso tempo i grandi progressi realizzati nello sviluppo delle tecnologie alternative hanno portato la Cina a essere proprio il primo produttore mondiale di tecnologie alternative al carbone e ai combustibili fossili. Secondo molti analisti questa apparente contraddizione spiega la scelta della Cina.

In questa prospettiva vanno considerate due sfide e linee di azione che sembrano indicare il percorso individuato dalla Cina. La prima sfida è quella di uscire dalla dipendenza dal carbone, la fonte energetica che assicura oltre il 60% dell’elettricità. Sono ancora in costruzione centrali a carbone, per quanto con tecnologie ad alta efficienza. Per raggiungere la decarbonizzazione, la vita media delle centrali in costruzione non potrà superare i 30 anni (compatibile con l’ammortamento dei costi) e il carbone potrà essere ancora usato solo negli impianti dotati di tecnologia per la cattura e il sequestro o riuso del carbonio. Nello stesso tempo sarà necessaria la progressiva chiusura degli impianti esistenti, che è già stata avviata con una decisione adottata nel giugno scorso dalla National Development Reform Commission e da altri sei ministeri: la decisione impone la chiusura degli impianti obsoleti e di quelli con una capacità eccedente la domanda, mentre dispone che le Province diano priorità alle tecnologie pulite e al rafforzamento della trasmissione elettrica interprovinciale rispetto all’autorizzazione di nuove centrali a carbone.

La seconda sfida è quella di aumentare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili e dal nucleare, per sostituire il carbone. Il piano quinquennale appena presentato indica puntualmente le misure e gli strumenti normativi ed economici per realizzarli, rafforzando la capacità produttiva nazionale per lo sviluppo delle tecnologie e dei sistemi a basse emissioni o emissioni zero. Un recente rapporto (29 settembre 2020) dell’Università di Tsinghua, predisposto dall’Institute of Energy, Environment and Economy, in collaborazione con l’Institute of Climate Change and Sustainable Development diretto dal ministro Xie Zhenhua, attuale “special advisor on climate change affairs of China”, ha tracciato le linee della transizione energetica della Cina per raggiungere la carbon neutrality: tra il 2025 e il 2060 l’impiego del carbone sarà ridotto del 96%, quello del gas del 75%, e quello dei prodotti petroliferi del 65%. Mentre è previsto un aumento del 382% del nucleare, del 587% dell’energia solare, del 346% dell’energia eolica, del 100% dell’energia da biomasse e del 50% di quella dall’idroelettrico. Gli investimenti necessari sono stimati in circa 15.000 miliardi $.

Questo scenario è stato analizzato utilizzando i modelli macroeconomici di Cambridge Econometrics (E3me macroeconomic model), che mettono in evidenza l’impatto positivo sul prodotto interno cinese, soprattutto nel breve periodo, per la dimensione degli investimenti necessari per aumentare la produzione e l’installazione di impianti a emissioni zero, di reti elettriche intelligenti ad alta efficienza, di auto e mezzi di trasporto elettrici, di impianti per la cattura del carbonio, etc. Va inoltre considerato che la riduzione dell’intensità di carbonio dell’economia cinese, avrà l’effetto di ridurre il carbon foot print dei prodotti cinesi destinati all’esportazione, ovvero le emissioni di CO2 associate al ciclo di vita del prodotto: in questo modo verrebbe a cadere la motivazione della proposta europea di applicare una carbon tax ai prodotti importati dalla Cina. Inoltre, come è già avvenuto per il fotovoltaico, l’economia di scala della produzione delle tecnologie a basse emissioni o emissioni zero per rispondere alla domanda interna, determinerà un effetto “spillover” con due conseguenze: la riduzione dei prezzi e l’aumento delle esportazioni dalla Cina. Dunque la decarbonizzazione della Cina potrebbe essere una scelta “win-win”, con effetti positivi globali sulla riduzione delle emissioni di carbonio.

Europa e Cina: una partnership sui cambiamenti climatici aperta al Giappone e a una nuova collaborazione con la presidenza Biden?

Le scelte di Europa e Cina hanno lo stesso obiettivo e percorsi simili. Considerando la dimensione degli investimenti necessaria, sarebbe logico individuare e concordare modalità per la collaborazione in ricerca e sviluppo delle soluzioni tecnologiche, per la definizione di standard comuni da proporre a livello globale, per l’ottimizzazione delle risorse finanziarie. La decisione di istituire una piattaforma di dialogo sui cambiamenti climatici, a conclusione del vertice Europa-Cina del 14 settembre scorso, potrebbe essere la “chiave” per favorire un lavoro comune e costruire un modello aperto alle altre grandi economie, tenendo conto del recente impegno per la carbon neutrality del Giappone.
Tuttavia sarà difficile isolare il cambiamento climatico dal contesto della cosiddetta “tech cold war”, la guerra fredda tecnologica che influenza le relazioni tra Europa e Cina: c’è il rischio che prevalga il conflitto rispetto alla “collaborazione competitiva”.

Adam Segal, su Foreign Affairs di settembre, ha osservato che la mancanza di collaborazione (bifurcated technology) rallenterà i tempi dello sviluppo tecnologico e aumenterà i costi, come rilevato da Deutsche Bank che ha stimato in almeno 3.500 miliardi $ il prezzo della guerra fredda tecnologica. Oppure il cambiamento climatico e le “convergenze parallele” di Cina ed Europa potrebbero essere l’occasione per riprendere il filo di un dialogo globale “a tutto campo”. L’impegno unilaterale del Giappone è un segnale positivo in questa direzione.
Ed è interessante il recente appello congiunto di Cile, Francia, Gran Bretagna e Italia, rivolto agli Usa per condividere l’impegno globale di riduzione delle emissioni e limitare l’aumento della temperatura. Joe Biden ha indicato l’obiettivo della carbon neutrality degli Usa entro il 2050. Come in Europa e in Cina, la sfida della decarbonizzazione richiede una modifica profonda della matrice energetica che sarà possibile se la nuova amministrazione Usa potrà contare sulla partnership dell’industria e della finanza da una lato, e sulla collaborazione del Senato e del Congresso dall’altro. Speriamo di avere presto gli Usa a bordo.