«Quella che è andata in scena per due giorni a Roma è stata una grande, per le dimensioni e non certo per la qualità media dei suoi protagonisti, Commedia dell’assurdo. Si è fatto riferimento ad una data, il 2050, che in politica è un’era biblica. E per giunta si è voluto presentare come globale il tema più divisivo che c’è: il clima. E tutto questo in assenza di due player fondamentali per dare un qualche senso ad un concetto tra i più vaghi esistenti: governance». Il G20 di Roma rivisitato da Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la rivista italiana di geopolitica. È considerato uno dei massimi esperti mondiali di geopolitica. Ha partecipato numerose volte alle riunioni del Gruppo Bilderberg. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia-Usa. Ha Insegnato Geografia politica ed economica all’Università degli Studi di Roma Tre, inoltre presso l’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano e l’Università LUISS Guido Carli di Roma.

Così il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, in un Twitter al termine della due giorni romana: «Mentre accolgo con favore la conferma degli impegni del G20 per soluzioni globali, lascio Roma con le mie speranze disattese, ma almeno non sono state sepolte». Come la mettiamo?
Mi pare un po’ una gran commedia tutta questa storia. Una discussione sul 2050 già di per sé è abbastanza assurda. Dopo che abbiamo visto che le rinnovabili non sono certo per domani e nemmeno per dopodomani e certamente non coprono tutto il fabbisogno di energia di cui c’è bisogno oggi. Dopo che abbiamo visto che bisogna avere più gas, dopo che abbiamo visto che i Paesi che volevano abolire il carbone attingono alle miniere come se nulla fosse, di che cosa stiamo parlando? Bisognerebbe evitare di imbarcarci in una discussione assurda e tornare all’attualità.

Vale a dire?
Che tipo di rapporto vogliamo avere con l’ambiente fermo restando che dobbiamo arrivare vivi al 2050. È tutta una cosa abbastanza assurda in cui dei signori in età avanzata, che nel 2050 avranno forse 120 anni, discutono di una cosa di cui non sono responsabili. È l’anti politica per definizione.

È stato un G20 dove, per dirla con Nanni Moretti in un suo celebre film, “mi si nota di più se non vengo”. È il caso di due pezzi da Novanta della geopolitica planetaria: il presidente della Repubblica popolare di Cina, Xi Jinping, e il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. Si può pensare una governance mondiale senza queste due potenze globali?
Non lo si può pensare in assoluto. A parte il fatto che mi devono spiegare cos’è la “governance” di cui tanto si ciancia. Ammettiamo che si sappia cosa essa sia e che qualcuno abbia la bontà di spiegarmelo, cosa vuoi decidere senza Cina, India e Russia. Di cosa parli! È tutto una commedia dell’assurdo.

E in questa commedia dell’assurdo l’Europa che ruolo ha avuto?
Un’altra assurdità. Continuiamo a parlare di Europa quando non esiste. Io penso che la politica debba partire dalla realtà. Se continuiamo a fare delle commedie creiamo l’opposto di quello che dovrebbe essere la responsabilità di una società democratica, cioè parlare di problemi reali, quelli di oggi e anche quelli di domani, con il senso di responsabilità che deriva dalla coscienza del presente e dalla capacità d’immaginare il futuro. Ma se manca la coscienza del presente è inutile dibattere del futuro.

Il G20 di Roma, ha rappresentato la prima volta in un consesso di questa portata di Mario Draghi come presidente del Consiglio e padrone di casa. Come ne è uscito da questo summit?
Lui ne esce sicuramente bene e comunque meglio degli altri. Al di là degli aspetti organizzativi, che tanto appassionano i nostri media, credo che rispetto alle possibilità che hanno degli eventi del genere, li abbiamo utilizzati bene. Quello che conta, ovviamente, non sono le sedute plenarie ma sono gli incontri bilaterali che in alcuni casi hanno sicuramente prodotto dei frutti.

Ad esempio?
Le discussioni che abbiamo avuto con i francesi e con i tedeschi, in particolare per quanto riguarda il regime monetario-fiscale dal 2023 in avanti, e cioè la necessità di non tornare a una interpretazione restrittiva del Patto di stabilità, sono già un risultato importante. E anche la presenza a Roma di Scholz, il successore di Angela Merkel alla cancelleria vuole indicare, o almeno lo speriamo, un senso di continuità rispetto alle politiche della signora Merkel degli ultimi anni sul fronte fiscale e monetario. Sotto questo profilo, ci aspettiamo che la Germania non tiri troppo la corda e non ci voglia riportare ad una versione austera del Patto di stabilità.

Quello appena conclusosi, è stato anche il primo G20 di Joe Biden come presidente degli Stati Uniti. Che presenza è stata la sua?
Una presenza alla Joe Biden, cioè impalpabile. Soprattutto non ha molto senso per un presidente americano parlare di equilibri globali senza avere di fronte la Russia e la Cina. L’assenza di Putin e Xi Jinping è stata dal punto di vista americano un ovvio abbassamento di senso di tutto l’evento.

Si parla del 2050, addirittura di fine secolo. Ma discorsi e riferimenti di questo genere fatti da leader che sembrano incapaci di guardare oltre l’orizzonte elettorale ravvicinato, che senso hanno?
Il senso di qualcosa che non va messo in conto solamente a chi governa oggi. Sarebbe ingiusto perché storicamente e politicamente sbagliato. Tutte le leadership di tutto il mondo nel momento in cui ci sono delle democrazie elettorali pensano a questo. Non è che sia una novità. È il tema che è assurdo. A partire dal dato di fatto che questi lavorano nel presente, porsi il tema 2050 è davvero un’assurdità, tra l’altro stabilendo dei criteri che non illustrano il modo per arrivare a quei risultati. Al di là della follia di discutere del 2050, se tu non stabilisci come ci arrivi, e se non hai alcun potere vincolante, ma di che cosa stai parlando?

Il che rimanda al tema del potere reale degli organismi sovranazionali…
No, rimanda ad un’altra questione. Noi presentiamo come globale un tema che è divisivo. L’ambiente non è vissuto nello stesso tempo da tutti, ma soprattutto non nello stesso modo. È chiaro che se a Putin gli si sciolgono i ghiacci artici, lui brinda. Mentre se le temperature nell’area tropicale vanno oltre certi limiti, nessuno di coloro che vi abitano può rallegrarsi.

La sensazione che si è avuta, ascoltando gli interventi dei rappresentanti americani nei vari panel che hanno animato la due giorni di Roma, è che quella che continua a pervadere anche l’attuale amministrazione Usa, non meno delle precedenti, è l’ossessione cinese. Tema al centro del numero di Limes in questi giorni nelle edicole e librerie. È destino che la Cina venga percepita come minaccia e non come opportunità dalla comunità internazionale?
La visione che ne ha un Paese come la Germania, o anche come la Francia, non è esattamente quella che ne hanno gli americani. Nel senso che loro lo vedono più come un rapporto essenzialmente commerciale ed economico, mentre per gli americani è una questione chiaramente strategica, cioè di tagliare la strada a una potenza che loro temono che possa in un futuro non tanto lontano soppiantare il loro primato.

La Cina è vicina. È il titolo di un indimenticabile film di un grande regista italiano, Marco Bellocchio. Oggi, questa “vicinanza” come dovrebbe essere vissuta e declinata dall’Italia?
Intanto abbiamo una importante diaspora cinese in Italia. Anche se è poco visibile, certamente conta ed è particolarmente connessa al regime di Pechino. In secondo luogo, da punto di vista economico, tecnologico e commerciale, dai tempi di Bellocchio ad oggi la Cina ha fatto enormi progressi e noi italiani ed europei siamo connessi alla Cina molto più di quanto non fossimo all’epoca. Resta il discrimine politico e geopolitico, per cui noi, in quanto parte del sistema a guida americana, non possiamo essere contemporaneamente con gli americani e con i cinesi. Quello che alcuni governi italiani forse, e mi riferisco in particolare ai governi Conte I e Conte II, non avevano pienamente colto, siglando il famoso, famigerato Memorandum of understanding.

Nei due giorni del summit di Roma, ho provato a tenere il conto di quante volte nei discorsi fatti dai partecipanti agli incontri, sia stata utilizzata la parola “multilateralismo”. A cento, mi sono fermato…
Appassionante come discussione…

Perché questo uso e abuso?
Perché il termine multilateralismo è il termine che le potenze che contano poco o non contano, utilizzano per far sapere a quelle che contano che esistono anche loro.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.