È sempre una conferma Kasia Smutniak. Intelligente, riflessiva, bellissima. È bene partire dall’ultimo dei tre, doverosi complimenti. Quello per cui servono gli occhi, a testimoniare ulteriormente quanto la macchina fotografica e da presa, già dimostrano da oltre un ventennio. Gli anni di appassionata carriera (moda, cinema, televisione), dell’attrice nata in Polonia nel 1979, due volte mamma e sposata in Italia (con il produttore Domenico Procacci, patron di Fandango), adottata dal nostro cinema (fra i suoi registi: i Taviani, Ozpetek, Sorrentino) e corteggiata all’estero (la serie Diavoli con Patrick Dempsey, il film From Paris with Love con John Travolta). Si presenta in un sobrio hotel di lusso sopra Locarno, in jeans e camicia e invisibile make up, comunque coperto dalla mascherina. Che lei toglie soltanto per bere un po’ d’acqua, e in fretta se la rimette. Non mostra fretta invece, quando racconta il suo mestiere amatissimo. Verso cui però, sa anche muovere critiche: «Ho fatto tanti film. Non so quanti, ma di sicuro sono troppi. Alcuni li ho sbagliati». Un mestiere che la porta alla 74esima edizione del Locarno Film Festival, per ritirare il Leopard Club Award (ieri) e tenere (oggi) una conversazione con il pubblico. Non nasconde le macchie della pelle. Come non nasconde ciò che pensa. Lo dice. Riflessiva e intelligente, quando risponde a queste domande. Al termine delle quali, ringrazia sempre (le piacciano o meno) chi gliele ha poste.

Il suo è un recitare spesso in sottrazione. È un modo per meglio rendere il personaggio? Coglierne la sensibilità?
Al cinema, togliere vuol dire dare. Perché girare un film non è recitare a teatro. La macchina da presa permette agli spettatori di essere “dentro”, di sentirsi quasi il personaggio che interpreti. Per me, entrare in un ruolo non è difficile. E nemmeno è difficile spiegarlo.

Spieghi, allora…
È come quando leggi un libro e dai un volto ai personaggi. In una sceneggiatura, io devo vedere chi andrò a interpretare. In questo, l’istinto è fondamentale. A volte porta a commettere errori. Ma se davvero ci credi, sbagliare è difficile. Magari è il progetto a essere sbagliato. Non ciò in cui hai creduto.

Eppure ammette, in una carriera ormai lunga e prolifica, di avere sbagliato qualcosa.
Sì, certo. E ho avuto la fortuna di poter sbagliare. Forse perché ho fatto questo mestiere, in Italia da straniera. Lontana dai critici in genere più severi. Come gli amici d’infanzia, o i genitori.

Affrontare poco più che ventenne “Nelle tue mani”, il film di un autore complesso come Peter Del Monte (da poco scomparso ndr.), è stata una decisione coraggiosa.
Fra i miei migliori lavori. Ero giovanissima, Peter Del Monte mi ha scelto anche per la mia ingenuità. A ogni mia richiesta di spiegazione, su come interpretare una scena, lui diceva sempre “fai!”. Mi ha concesso la libertà, che poi ho ricercato in ogni altro mio film. Chissà come sarebbe stato, lavorare ancora con Peter.

Era il 2007. Da allora il cinema è cambiato?
È cambiato il mondo. E così anche il cinema. Con l’avvento delle piattaforme (di streaming, ndr.), non si è mai assistito a un cambio di questo genere. Prima, un progetto era messo alla prova del tempo. Oggi invece, è tutto molto veloce. Questo cambiamento enorme, chissà dove ci porterà.

Quanto di buono c’è, in questa radicale mutazione? E quanto di cattivo?
Di buono, c’è che ai film si è aperto un intero mondo. Mentre prima, per molti prodotti la sola vetrina erano i festival. Si credeva però, di avere portato aria fresca. Anche per il cinema d’autore. Invece, persiste una globalizzazione del racconto. La richiesta di storie che si somigliano. Io non cerco la sicurezza, anche da spettatrice.

Figurarsi da interprete. Insieme a Pierfrancesco Favino e Nanni Moretti, è la protagonista del prossimo “Il colibrì” di Francesca Archibugi. Il film è tratto dall’omonimo libro di Sandro Veronesi, Premio Strega nel 2020.
Quello di Veronesi è un grandissimo romanzo, una storia bellissima. Tutti noi attori e la regista Francesca Archibugi, sentiamo molto la responsabilità. Per ora non posso parlare del film. Le riprese sono in corso e la data di uscita deve essere ancora fissata.

Attendiamo. Con la curiosità di vedere sullo schermo un personaggio femminile di spessore, come emerge dal romanzo. Per lei sarà l’ennesimo ruolo “da premio”, nella sua filmografia. Come attrice, ha da lamentarsi?
A noi donne, rispetto a qualche tempo fa, oggi il cinema offre maggiori opportunità. I personaggi femminili stanno prendendo sempre più spazio nel racconto. Ma non dobbiamo accontentarci. È un lavoro che dobbiamo fare bene. Lo facciamo anche per i nostri nipoti.

Tocca anche al cinema contemporaneo, destinare ai posteri il meglio possibile?
Se quello che il cinema mostra fosse soltanto al maschile, racconterebbe non la totalità ma soltanto una metà. Noi donne dobbiamo prenderci il nostro spazio. Non troppo, il giusto. La metà.

La sua Livia Drusilla della serie Sky “Domina”, è una delle sue donne-forti. Pensa di avere qualcosa di lei?
Mi sarebbe piaciuto, essere così razionale e controllata. Ma non lo sono (ride, ndr.). Portare a compimento un progetto come Domina, fino a qualche tempo fa non sarebbe stato possibile. Una serie in costume, realizzata da un punto di vista femminile, non avrebbe avuto grossi finanziamenti.