La “voce” di Monica Bellucci – che si presenta alla stampa in un grand hotel del centro di Torino – è anche femminista, quasi sociopolitica («diversamente dal passato, oggi noi donne ci rispettiamo e ci amiamo di più. In questo modo, anche gli altri ci guardano con maggiore rispetto»). Bellissima e riflessiva, allora. L’attrice appare divertita e divertente, come la sua Anita. La felliniana Ekberg che evoca, indagandone gioie e (non pochi) dolori in The Girl in the Fountain, la raffinata docufiction diretta da Antongiulio Panizzi, presentata fuori concorso al 39esimo Torino Film Festival (in sala solo oggi e domani, evento speciale distribuito da Eagle Pictures).

Ci vuole coraggio a incarnare l’icona bionda, che nel 1960 Federico Fellini fa entrare nella Fontana di Trevi («ma io – afferma Bellucci – mai avrei osato ripetere quella scena». Che infatti il regista, con apprezzabile rispetto al mito, omette dal film), come la dea di Botticelli emerge dalle acque. La dolce vita alla maniera della Nascita di Venere. Dunque: bellissima, riflessiva, ironica e coraggiosa. La diva è in linea con la sua trentennale e strepitosa carriera cinematografica, costellata di scelte affatto banali (la criminale sordomuta di Dobermann, la giovane donna che subisce tremenda violenza in Irréversible), autorialità europea (da Philippe Garrel a Kusturica e Alice Rohrwacher), grandi italiani (Tornatore, Virzì), successoni hollywoodiani (La Passione di Cristo, il secondo e terzo Matrix). Progetti spesso affrontati con grande generosità. Racconta Panizzi: «L’ultimo giorno di set, Monica ha scritto una sua lettera a Anita. Abbiamo deciso di metterla nel film». Una intuizione che calza bene, in questo «bellissimo lavoro di regia e di sceneggiatura, per cui anch’io mi sono permessa di fare una cosina» conferma la protagonista. D’altra parte, era stato un servizio fotografico della stessa Ekberg a suggerire a Fellini, per il suo capolavoro, il bagno notturno nel cuore di Roma. Succede, che con le coincidenze si scriva la Storia.

A volte, la Storia è scritta anche dai soliti stereotipi. Pensa di esserne stata vittima?
Tante volte ho rischiato di rimanerci imprigionata. Ma sono stata fortunata. Il cinema mi ha permesso di potermi esprimere, al di là delle possibilità date alle attrici considerate belle.

Una etichetta che invece, dopo La dolce vita Anita Ekberg non è più riuscita a togliersi.
In quel periodo, per un’attrice della sua tipologia era difficile potere continuare a lavorare dopo i quaranta. Oggi viviamo in un’epoca molto diversa. Io continuo a poter scegliere fra i ruoli che mi vengono proposti. E non ho più venticinque, né trenta o quarant’anni. E nemmeno cinquanta (ride Bellucci classe, da vendere, 1964, ndr.).

Anita e Monica. Due donne molto diverse, anche fisicamente. Eppure, a The Girl in the Fountain si finisce per credere. Ben oltre la parrucca bionda che ogni tanto indossa. Quale è stato il suo metodo di lavoro?
È vero, siamo diversissime. Lei era così nordica, io invece mediterranea. Due modi diversi di rappresentare l’avvenenza. Ma cosa fa un’attrice? Interpreta un ruolo. E per farlo, cerca una chiave di accesso. In The Girl in the Fountain, io l’ho trovata nella scena del sogno. L’elemento onirico, così caro a Fellini. Nel film ci sono tanti omaggi al maestro. Compreso il mio vestirmi spesso di bianco.

Nel recente spettacolo teatrale Maria Callas. Lettere e Memorie di Tom Wolf, veste invece un abito nero appartenuto al grande soprano. Come si è trovata a interpretare la Callas?
Anche lei, come Anita, è stata una donna tragica. Tutte e due hanno vissuto le luci e le ombre. Eppure erano così distanti. Le ho abbracciate entrambe, ma in maniera differente. Maria Callas ha affrontato il dolore con una dignità assoluta. Nei suoi ultimi anni, certa stampa finì con violenza per considerarla come fosse diventata una nullità. Oggi non potrebbe più accadere. Un tempo, per una artista gli anni che passavano equivalevano alla sua morte sociale. Invece, allo stesso modo in cui è possibile trovare sexy un uomo che invecchia, lo stesso ora può succedere anche nei confronti di una donna. E la gerontofilia non c’entra (ride, ndr.).

In cosa si è sentita legata all’immagine di Anita Ekberg? Una diva sfortunata. La sua carriera luminosa ha subìto presto un crollo. Una discesa ripida e senza fine.
La sua immagine forte e potente, di cui tutti ci siamo innamorati, emana qualcosa di buono. Così, mi è venuta voglia di difendere Anita. Che non aveva la protezione maschile (due infelicissimi matrimoni. Molti illustri e complicati flirt, anche con l’Avvocato Agnelli, ndr.).

Attrici, icone. Ma comunque, soprattutto, donne.
Diventare un’icona è pericolosissimo. Bisogna essere vive. È sempre bello da mettere in evidenza, anche per un’attrice. Non siamo mica Nefertiti, non siamo imbalsamate. Siamo donne. La vita dà e toglie tanto. Ma io, a differenza di Anita cui non era concesso, posso permettermi di scherzare con l’età. Senza vergognarmi del tempo che passa. In tal senso, oggi il cinema è molto cambiato e i registi hanno voglia di continuare a metterti in luce.

Diretta da Gabriele Muccino ha interpretato uno dei suoi migliori ruoli. Con la mamma e amante (di Fabrizio Bentivoglio) in Ricordati di me, nel 2003 vinse il Nastro d’argento. Nella sua recente autobiografia La vita addosso, poco tenera nei confronti di alcuni nomi noti, Muccino ha detto di averla dovuta «molto shakerare» durante le riprese. Vuole rispondere?
Ricordati di me è un film che amo. Il mio ruolo era bellissimo e bello è stato lavorare con Muccino, un regista meraviglioso nel dirigere gli attori. Sono passati vent’anni. Se mi ha “shakerato” ha fatto bene.

The Girl in the Fountain termina con lei, armata di arco e frecce, che prende la mira per abbattere un drone che la vuole paparazzare. Fa il verso alla Ekberg, sempre combattiva con chi invadeva troppo la sua privacy.
Con questa scena abbiamo voluto dire: grazie Anita! Per merito tuo abbiamo imparato a difenderci.