L'intervista al Premio Strega
Intervista a Nicola Lagioia: “Le colpe degli assassini, ma non chiamateli mostri”

Quando ho letto per la prima volta dell’omicidio di Luca Varani mi sono sentito inquieto. Quattro anni dopo, quando ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia, mi sono ritrovato a letto terrorizzato. Quello che ho sbrigativamente interpretato come horror vacui in verità era pura empatia. La mia empatia per degli assassini. Mi domandavo insistentemente, “… al posto di Marco Prato e Manuel Foffo sarei potuto esserci io?”. Non si trattava di uno di quei romanzi che ero solito leggere e dei quali mi affascinava la storia del cattivo. Era morto un ragazzo di ventitré anni. È morto Luca Varani, nella notte tra il 4 e il 5 marzo del 2016, in un appartamento sospeso dalla realtà, al decimo piano di Via Igino Giordani, numero 2, nel quartiere Collatino di Roma.
È morto per mano di due assassini, sotto l’effetto di alcol e di cocaina, consci di aver imputridito l’atmosfera domestica con una violenza insensata e mortificato il corpo di un altro essere umano con più di cento tra martellate e coltellate. Ricordo il brivido che mi scosse quando lessi che Manuel Foffo e Marco Prato, travestito da donna, dormirono abbracciati subito dopo l’omicidio, a pochi passi dal cadavere di Varani, e ricordo l’immediato clic nella mia testa. Quella scena mi riportò a Vienna, a La morte e la fanciulla di Egon Schiele, la tela del 1915, emblema della catastrofe incombente e della desolazione dell’incomunicabilità di due corpi contorti su un sudario. Uno sguardo sull’abisso, nell’abbraccio di muta solitudine di fronte a un corpo seviziato, quello di un ragazzo che aveva accettato un invito infausto. Muovendosi della periferia nord di Roma, più consapevole dei ragazzi di vita della borgata pasoliniana, ma che come quelli ne rappresentava le arterie lacerate e la muscolosa corporeità, Luca era stato torturato e ucciso senza un motivo.
Tuttavia, continuavo a pensare che eravamo parte della stessa generazione, tutti e quattro, io, Marco Prato, Manuel Foffo e Luca Varani. Ci eravamo uccisi tra fratelli. Figli della crisi della categoria del maschile, della caduta del totem nel machismo introiettato di una società patriarcale che resiste, nella quale le donne sono relegate agli angoli delle tragedie e gli uomini “meglio assassini che froci”. Abbiamo ribaltato il paradigma. La castrazione simbolica dei padri ha paralizzato l’emancipazione dei figli, condannando una generazione all’abulia: «A noi Foffo piacciono le donne vere. Mio figlio non è da meno». È in quel “meno” che viene negata a Manuel la possibilità di riscattarsi da un paterno ingombrante, è in quel “meno” che si insidia il germe della mascolinità tossica che annienta l’individuo nel suo idolo, nel falso da sé dell’istrionico Marco Prato, scisso tra il travestitismo di una cultura queer un po’ kitch, nel tempio dell’autoreferenzialità di un suicidio esemplare da diva Dalidà, e la mancanza di una grammatica sentimentale al suo lessico gay.
Io non ero in quell’appartamento, mi ripetevo. Eppure quella storia ha perseguitato anche me, destino avverso condiviso con Nicola Lagioia, che cinque anni dopo La ferocia, il romanzo con il quale ha vinto il Premio Strega, ha restituito ne La città dei vivi la discrasia dell’uomo contemporaneo, quella cattiva mescolanza di distorta percezione dell’io e mancato riconoscimento dell’alterità. Lagioia si muove nella decadenza scatologica di una Roma correa, capitale dei vizi, annegata nel sangue di un topo morto alle biglietterie del Colosseo, a raccogliere interviste, atti giudiziari, intercettazioni; intrattiene un carteggio con uno dei due assassini in carcere, Manuel Foffo, condannato a trent’anni, mentre l’altro, Marco Prato, è uscito di scena, meno glam di quanto avrebbe voluto, togliendosi la vita drammaticamente con una bombola del gas nel carcere di Velletri. «Quella di Foffo e Prato era una solitudine, ma una solitudine colpevole. Avevano identità fragili, debolezze che si sono fomentate, per crollare l’una sull’altra e poi entrambe su Varani», interviene Nicola Lagioia sulle pagine de Il Riformista a proposito dei limiti della società contemporanea e quelli della giustizia ordinaria.
La città dei vivi è stato facilmente accostato a Capote e a Carrère. C’è chi ha intravisto Walter Siti, I sotterranei del Vaticano di Gide, La scuola cattolica di Albinati. Io credo che ci sia più Dostoevskij, specie per l’idea di libero arbitrio, di colpa e di possessione…
L’uomo moderno di Dostoevskij, nel mio libro, come già per tutto il Novecento, è crollato vertiginosamente. Nel Raskolnikov di Delitto e castigo ci sono i concetti alla base dell’uomo moderno, ovvero quello del libero arbitrio, della conseguente assunzione di responsabilità, della maturazione del senso di colpa e della scelta di consegnarsi alla giustizia. Questi elementi, pur nel loro essere duplice, stanno ancora in piedi nella struttura umana di Raskolnikov, ma sono stati completamente rasi al suolo in Marco Prato e Manuel Foffo. Da una parte, nessuno di loro nega il proprio coinvolgimento in questo omicidio, ma dall’altra nessuno dei due attribuisce l’omicidio a un atto di libero arbitrio. Piuttosto, a proposito di possessione e spossessamento, ne parlano come se fossero stati guidati da una forza superiore che li ha costretti ad agire. Se non si riconoscono un atto di volontà, dunque come possono riconoscersi a loro volta una responsabilità e di conseguenza una colpa? Per questo ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso e di tragicamente nuovo. I due assassini sono convinti e si figurano come Alex di Arancia meccanica con la cura Ludovico, ma fatta al contrario. Alex, dopo la cura Ludovico, è incapace di fare del male, non può che fare il bene. L’unico difensore della modernità è allora il prete, che è poi anche il paradosso geniale di Kubrick: «Meglio poter scegliere tra il bene e il male, e scegliere il male, piuttosto che fare il bene senza poterlo più scegliere?». A quel punto non avremo più l’uomo, o meglio, non avremmo più l’uomo come lo conosciamo, diventerebbe un’altra cosa. Quella cosa che credono essere Marco Prato e Manuel Foffo.
Si è parlato del caso Varani come di un omicidio diabolico, mosso da forze oltre natura, di un’esasperata espiazione edipica e di delitto di matrice omofoba. Lei, che ha parlato spesso di «impossibilità di distogliersi da se stessi», che idea si è fatto?
Occupandomi di letteratura, e dato che la letteratura sa rispondere alle domande solo con altre domande, la mia risposta su come siano andati realmente i fatti non potrà ovviamente essere definitiva. Tutti questi elementi, che comunque possono essere presi in considerazione, come la questione dell’orientamento sessuale o l’assunzione di cocaina, non possono spiegare da soli tutta quella violenza ingiustificata. Il problema di questi omicidi efferati è che spesso ogni frangia culturale cerca di cavalcarli sulla base delle proprie convinzioni. Fare, però, di un caso di cronaca come il delitto Varani l’occasione per una battaglia politica è sempre ingiusto.
Il cattivo giornalismo ha immediatamente relegato i due assassini al rango di mostri, ma come lei scrive: «I mostri non esistono. Li creiamo noi di volta in volta per scaricarci la coscienza». È questa la sua interpretazione del principio di responsabilità?
I giornali oggi hanno due problemi. Il problema delle vendite, poiché hanno molte meno risorse, e il problema del sensazionalismo, del “male subito”, dello “Sbatti il mostro in prima pagina”, due problemi che sono ovviamente correlati. I giornali si fanno quindi influenzare dalla cultura dominante, ma sarebbe bene che si emancipassero dal mainstream. La letteratura, al contrario, si interroga sul perché noi cerchiamo di relegare i carnefici nel novero delle creature fantastiche, ovvero i mostri. Lo facciamo per un istinto umano, perché viviamo il terrore di poter vestire un giorno i panni del carnefice o quelli della vittima, per esorcizzare il terrore. Il padre di Luca Varani, al contrario, non si è mai espresso apertamente definendo gli assassini del figlio come “mostri”, ha detto: «Hanno fatto delle cose mostruose», «Si sono comportati come mostri, ma non lo sono». Con le vittime invece accade un’altra cosa: o le si mettono nell’empireo o si dice che “se l’è andato a cercare”. In entrambe le situazioni, il filtro che separa la nostra vita da quella delle persone coinvolte è necessario, specie se in gioco c’è il “per puro caso”, perché qualora non ci fosse, ne saremmo terrorizzati.
La città dei vivi è senza dubbio un’indagine sulla percezione del male. Nel suo libro, sebbene ci sia molta folla, sembra che l’incarnazione del male sia una forma di solitudine, quella tragedia privata che è poi la malattia del nostro secolo. È questo il male per lei?
Si tratta di una solitudine, ma di una solitudine colpevole. Foffo e Prato avevano identità fragili, debolezze che si sono fomentate, crollate l’una sull’altra e poi entrambe su Varani. A questa debolezza, alla quale noi solitamente attribuiamo un privilegio, in questo caso le attribuiamo una colpa. Sono colpevoli di essere stati soli, di non essere stati abbastanza forti e definiti da resistere al vento che li ha portati a uccidere Varani, per aver aumentato vertiginosamente le probabilità di non poter più riuscire a prendere una decisione e per aver messo in moto, per eccessiva debolezza, una catena di eventi inarrestabile.
Al caso Varani si è presto affiancato il caso Prato. Il detenuto, trasferito da Regina Coeli al carcere di Velletri, ha dichiarato più volte di aver subìto questa scelta con sconforto, definendo, prima di togliersi la vita con una bombola del gas, la nuova realtà carceraria come «mera espiazione senza rieducazione». Marco Prato è stato quindi ucciso da un retaggio giustizialista che ancora alberga in molte carceri italiane?
Dopo aver incontrato anche il senatore Manconi, con il quale ho discusso di giustizia riparativa, sono arrivato alla conclusione che i limiti della giustizia ordinaria siano quelli di non mettere il responsabile di fronte alle proprie azioni, al fine di fargli riconoscere i propri errori. È sulla scorta di questa incapacità che l’approccio della giustizia trova le sue limitazioni: come si reinserisce un detenuto nella società se questi non riesce a riconoscere le proprie colpe? E come si può solo pensare di farlo se esiste l’ergastolo? Io ho l’impressione che i detenuti vengano imbottiti di psicofarmaci e che non vengano assistiti da un percorso di rieducazione volto al reinserimento nella società. Si pensi che dalla perizia psichiatrica, che ha preceduto il suicido di Marco Prato in carcere, si evince che il detenuto mantenesse ancora tutte le funzioni autoconservative intatte. Ma Prato aveva tentato il suicidio già due volte, prima della galera. Inoltre, sussiste la questione delle bombole del gas che in carcere non sono state ancora sostituite, e di cui Prato parla al padre come di “un upgrade”. La situazione delle carceri italiane è quindi un problema complesso che andrebbe affrontato in maniera seria, con l’intervento di tutte le parti coinvolte, gli offesi e gli offensori.
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