Le grandi democrazia non cambiano mai modello
Intervista a Piero Ignazi: “Troppe leggi elettorali fanno male alla democrazia”

Dei partiti, del loro funzionamento, delle storture e quanto altro, è uno dei massimi esperti in circolazione. Così come dei sistemi elettorali e di rappresentanza. Parliamo di Piero Ignazi. Ex direttore della rivista il Mulino, Ignazi è professore ordinario di Politica comparata presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e chercheur associé presso il Cevipof (Fondation Nationale des Sciences Politiques) di Parigi.
Quale legge elettorale per quale idea di democrazia. È il tema rilanciato da Paolo Mieli in una intervista a questo giornale, nella quale sostiene che il punto centrale di un progetto di riforma dovrebbe essere come costruire e organizzare il consenso, e da esso far discendere la nuova legge elettorale. Sul tema si è aperto un vivace dibattito. Lei come la vede?
Lo studio dei sistemi elettorali, a livello accademico, si fonda su una grande distinzione tra sistemi proporzionali e quelli maggioritari. Poi c’è una anche una nuova categoria venuta avanti negli ultimi anni per confondere un po’ le acque. Mi riferisco ai cosiddetti sistemi misti. E come sempre le cose miste sono le peggiori. Il proporzionale ubbidisce ad una logica molto semplice che è quella di fotografare le varie differenze politiche che esistono nella società. E quindi in maniera più o meno precisa e diretta, si va da un massimo di rappresentatività, quando non ci sono barriere, quando esiste un solo collegio elettorale che coincide con la nazione, è questo il caso dell’Olanda, per tanti anni, di Israele: in questo caso, abbiamo il massimo della rappresentatività che significa anche massimo della frammentarietà. Dall’altra parte, abbiamo il sistema di tipo maggioritario, il cui esempio classico è quello inglese, con alcune varianti, che esistono anche nei sistemi proporzionali. Nel sistema “ideale” maggioritario, quello inglese per l’appunto, si divide la nazione in tanti collegi quanti sono i deputati da eleggere e il primo che arriva in ciascuna circoscrizione passa indipendentemente da quanti voti ottiene e di quante persone partecipino. Questo sistema non fotografa la varietà delle posizioni esistenti in un Paese ma tende a favorire grandi partiti distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale e dunque a garantire la governabilità o quanto meno a favorirla, con governi coesi e stabili. In mezzo a questi due mondi ideali ci sono molte articolazioni, parlando sempre di questioni legate a sistemi misti, che consentono di limitare la frammentazione, da un lato, e di limitare la disproporzionalità dall’altro, perché l’altro corollario del sistema maggioritario inglese è che è fortemente disproporzionale, perché non fotografando la realtà finisce per favorire i grandi partiti a scapito di quelli medio-piccoli. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Che sistema democratico è quello in cui, è il caso dell’Italia, praticamente quasi ad ogni elezione si modifica o si cerca di modificare la legge elettorale adeguandola agli interessi del momento di chi è maggioranza?
È un disastro. Tipico della caduta di una cultura istituzionale da parte della politica. Negli ultimi tempi abbiamo visto e stiamo vedendo ancora, anche se sempre meno, l’esempio in cui si diceva che in fondo un Presidente della Repubblica può stare al suo posto anche due anni, la carica è di sette anni ma chissenefrega, ma pazienza facciamola per due. Per non parlare di chi prende per seria la battuta di Giorgetti, che tale era, ma c’è chi si è scomodato anche a dire che non era possibile, come se si dovesse riaffermare ogni volta che la Terra è rotonda.
Sempre nell’intervista a questo giornale, Mieli afferma che non si può “istituzionalizzare un’emergenza”, modellando su questo obiettivo una nuova legge elettorale. Il riferimento è al governo Draghi.
Francamente non vedo proprio come possa avvenire questo. Mi pare una ipotesi campata nell’aria. Detto questo, penso che sia assolutamente corretto non fare delle leggi elettorali che siano confezionate per uno scopo o per un altro, di breve periodo e per interessi di parte. Purtroppo così non è stato negli ultimi tempi. Ero e resto fermamente convinto che troppe leggi elettorali danneggino il nostro sistema democratico, meglio farne una sola definitiva. D’altro canto, le grandi democrazie non hanno mai modificato le loro leggi elettorali dal dopoguerra ad oggi, con la sola eccezione della Francia quando passò dalla IV alla V Repubblica, nel 1958.
In questi ultimi 13 anni, quelli contrassegnati da governi guidati da primi ministri proiettati a Palazzo Chigi senza consenso elettorale, chi ha tratto benefici elettorali di questa situazione sono stati gli oppositori: prima i 5Stelle, poi la Lega e oggi Fratelli d’Italia. Mentre si cercava sempre un “salvatore della patria” come guida di governo.
Beh, faccio fatica a pensare a Gentiloni come un salvatore della patria, non ce lo vedo proprio. I partiti a cui lei ha fatto riferimento, non sono nati e cresciuti elettoralmente in quanto contrari ai “salvatori della patria”. Nel 2018 c’era Gentiloni, per l’appunto. Nascono per altre cose. Nascono perché c’era insoddisfazione in tutta Europa per come i partiti maggiori hanno governato negli ultimi decenni.
A suo avviso, professor Ignazi, premesso che, in linea di principio, una cosa non esclude l’altra, ma nell’Italia di oggi, e per lo stato della nostra democrazia, è più preoccupante il crollo della partecipazione, vedi la marea astensionista alle recenti amministrative, o una governabilità sempre a rischio?
A destare preoccupazione e allarme non sono solo queste due alternative. Se devo indicare la vera preoccupazione, almeno per come la vedo io, questa inerisce ad una ancora troppo fragile cultura politica democratica nell’opinione pubblica, per cui i principi, le istituzioni, sono regole del gioco che vanno preservate e accettate da tutti e non modificate, coartate a seconda delle esigenze, come si è visto negli ultimi venticinque anni. Ed è questo il vero lascito putrescente del berlusconismo, quello di aver piegato le istituzioni ai suoi bisogni, arrivando a far votare ai suoi parlamentari che Ruby era la nipote di Mubarak. A questo siamo arrivati. Una cultura politica che aveva già una serie di difficoltà, per ragioni storiche – la Chiesa, il Pci… – a consolidarsi come cultura politica democratica è stata poi massacrata negli ultimi venticinque anni. Il vero problema per l’Italia è questa cultura politica democratica ancora estremamente debole, per cui ogni tanto si aprono autostrade, vuoi per populisti, poi anche per estremisti di destra come sono Fratelli d’Italia.
È iniziato il “valzer del Quirinale”. Si cominciano a tirare fuori nomi di “papabili” al massimo Colle, tirando per la giacca Mario Draghi, mentre Mattarella ha ribadito ancora la sua intenzione a finire la sua esperienza settennale nei tempi costituzionalmente stabiliti senza alcuna proroga. Questo andazzo è un altro elemento che dà conto di quella fragile cultura politica democratica a qui lei faceva in precedenza riferimento?
Non colgo questo scandalo…
È come se fossimo in un conclave permanente…
Questo non mi scandalizza, Mi sembra tutto sommato fisiologico. Del resto in Francia, già praticamente da un anno si vive in questa situazione per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Non ci vedo niente di male e non riesco a cogliere quale sia il problema.
C’è chi sostiene che il problema è quello di usare il Quirinale per traguardare Palazzo Chigi. In parole povere, che alla fine il problema sia dove “piazzare” Draghi.
Finalmente ci si è resi conto che il problema è questo. Si è messa in pista una personalità prima del dovuto. Non ce n’era alcun bisogno. Vede, io non sono tra quelli che considerava nel gennaio scorso la necessità di un salvatore della patria. È stata tutta una narrazione completamente fuori dal mondo. Comunque sia, Draghi è arrivato qui, a Palazzo Chigi, e adesso bisogna capire se rimane ancora un po’, finché il Parlamento non gli voterà contro, il che potrebbe pure succedere da un momento all’altro… Se Conte perde la leadership dei 5Stelle voglio vedere poi che succede al governo, oppure se, come io auspico, Mario Draghi venga insediato per sette anni al Quirinale e non rimanga ancora qualche mese in più a Palazzo Chigi.
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