“La proposta distruttiva di Giorgia Meloni della scorsa legislatura di sancire in Costituzione il primato del diritto interno rispetto a quello dell’Unione isolerebbe il governo italiano”, alla stregua  di polacchi e ungheresi. E su quali scenari si apriranno in Italia dopo le elezioni politiche molto dipenderà dalla capacità di proposta dell’opposizione. Stefano Ceccanti, costituzionalista e professore ordinario di Diritto Pubblico Comparato all’Università di Roma La Sapienza, già parlamentare del PD che da ieri ha ripreso servizio alla facoltà di Scienze Politiche, in questa intervista all’Avanti! della domenica, riflette su quali sono le riforme urgenti per il Paese e a quale legge elettorale lavorare da subito per dare stabilità al paese.

Il taglio del numero dei parlamentari è un tema che, secondo Ceccanti, “bisogna evitare di drammatizzare poiché la garanzia della rappresentatività non si concentra nel solo parlamento”. Per Ceccanti, il Pd, per riconnettersi con i suoi elettori deve risolvere il problema di una forte leadership, riconquistando uno dei pilastri fondativi del Pd: le primarie aperte.

La sinistra è uscita sconfitta dalle urne del  25 settembre scorso. Da dove deve ripartire per rigenerarsi?
Ci sono tre pezzi di opposizione che sul breve termine giocano a divaricarsi, ma questa divaricazione rischierebbe di confermare il predominio di un centrodestra che è minoranza nel Paese e che potrebbe avere ulteriori problemi di consenso. Da questo punto di vista l’unica leva per ripartire è un rilancio del Pd perché, se debitamente rilanciato, potrebbe essere la calamita per tutti. Il Pd vivrà a breve, fino alla chiusura del suo congresso a marzo, una fase molto difficile, ma ha risorse che non possono e non debbono essere sottostimate. In particolare le primarie aperte in grado di riconnetterlo ai suoi elettori, rappresentano un pre-requisito fondamentale per risolvere in modo democratico il problema di una forte leadership, di partito ma anche di Governo alternativo.

Quali scenari si aprono in Italia dopo le elezioni politiche? Il Governo Meloni sarà un governo sovranista oppure un governo tecnico, una specie di riedizione del governo Draghi?
E’ dubbio che i toni nazionalisti e sovranisti possano essere ribaditi una volta al Governo, come la proposta distruttiva Meloni della scorsa legislatura di sancire in Costituzione il primato del diritto interno su quello dell’Unione. Si andrebbe ad un isolamento del Governo italiano, in compagnia dei soli polacchi e ungheresi, che nuocerebbe al Paese. Non sarà tuttavia semplice capovolgere i toni e rivendicare larga parte della positiva continuità del Governo Draghi. Certo che gli esiti dipenderanno anche dalla capacità di proposta dei gruppi di opposizione.

La Russa è stato eletto presidente del Senato con la defezione di FI e con i voti segreti di altre forze politiche. Risultato: spaccatura profonda nel centrodestra e sullo sfondo i voti dell’opposizione. La legislatura non è partita in un clima di coesione…
Il punto istituzionale è che la legge elettorale può incentivare forme di coesione che però sono limitate al momento del voto. Di più non le si può chiedere. Senza andare a rimedi estremi come il presidenzialismo, il tema è quello dei disincentivi costituzionali alle crisi: si possono riprendere dalle esperienze delle grandi democrazie parlamentari, a cominciare dal potere del Presidente del Consiglio di poter chiedere elezioni anticipate in caso di sconfitta sulla fiducia (come in Germania e in Svezia). Se non ci mettiamo mano la debolezza della maggioranza rischia di intrecciarsi con quella dei gruppi di opposizione con dinamiche non trasparenti.

E’ appena partita la XIX legislatura. Che parlamento sarà quello che si è appena insediato?
Diciamo umilmente che sappiamo di non sapere. In particolare, finché non la vediamo alla prova, non conosciamo bene le possibilità di una coesione effettiva della maggioranza uscita dalle urne e dei gruppi di opposizione. Sappiamo però che dopo le elezioni, sul piano nazionale, non ci sono disincentivi costituzionali efficaci rispetto alle crisi e che quindi è più probabile, per queste ragioni, che i problemi di stabilità e di efficienza prima o poi si porranno. La legge elettorale interviene solo nel momento in cui i voti sono trasformati in seggi, quello che accade dopo è invece il frutto di disincentivi alle crisi che riguardano la forma di governo>>

I collegi sono stati ridisegnati. Alla luce del taglio del numero dei parlamentari, cosa rimane della rappresentatività territoriale?
Eviterei di drammatizzare il tema della riduzione dei parlamentari. Chi lo fa dovrebbe a quel punto proporre non di tornare ai vecchi numeri ma addirittura di ampliarli. La rappresentatività non è direttamente proporzionale al numero dei parlamentari che siedono al Parlamento nazionale.

La garanzia della rappresentatività è però uno dei pilastri delle democrazie contemporanee…
Certo, però anzitutto essa non si concentra nel solo Parlamento nazionale. Poi occorre fare un ragionamento più articolato. Che parte non dal numero dei parlamentari, ma dai limiti della formula elettorale. Le liste bloccate sono delegittimate e i collegi uninominali sono per un verso troppo grandi e per altro verso soggetti a trattative di spartizione nelle coalizioni. L’alternativa però non può essere il voto di preferenza perché a livello nazionale, a differenza di quanto accade per Comuni e Regioni, esso si baserebbe su circoscrizioni pluriprovinciali  con altissimi costi delle campagne e forte peso di gruppi organizzati, interni ed esterni ai partiti. La soluzione preferibile pare essere quella di eleggere tutti i parlamentari, come nel vecchio Senato o nelle vecchie province, con il collegio uninominale proporzionale di partito che a quel punto comprenderebbero poco più di 100 mila elettori alla Camera e 200 mila al Senato. Il candidato sarebbe ben visibile e questo retroagirebbe anche sulle modalità di scelta da parte dei partiti.

La migliore legge elettorale possibile per garantire stabilità al Paese qual è, secondo Stefano Ceccanti?
Sull’elezione dei singoli parlamentari ho già segnalato che la soluzione migliore sarebbe l’uninominale-proporzionale. Sulla formula di traduzione dei voti in seggi non è di per sé un difetto che una maggioranza relativa in voti possa essere trasformata in maggioranza assoluta in seggi, consentendo che il cittadino sia arbitro del Governo. Le leggi elettorali vigenti sono criticabili non perché aprano a questo principio ma perché il loro concreto funzionamento è esposto a due esiti opposti, entrambi non desiderabili: o la mancanza di una maggioranza in seggi o una maggioranza che si possa avvicinare ai quorum di garanzia, a cominciare da quelli dei tre quinti per l’elezione dei membri laici del Csm e dei giudici costituzionali di spettanza parlamentare. Per queste ragioni appare più equilibrato predeterminare il livello di disproporzionalità non affidandolo a collegi uninominali maggioritari ma ad un premio di maggioranza. La Corte costituzionale ha già stabilito che è conforme a Costituzione attribuire a chi ottenga il 40% dei voti il 54% dei seggi e non ha precluso forme di ballottaggio nazionale, purché siano possibili nuovi apparentamenti tra primo e secondo turno qualora nessuno raggiunga tale soglia.