Le violenze in carcere, nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, sono state un “uragano” – scrive l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia – che ha travolto tre comunità: «La comunità dei detenuti, traumatizzati e feriti dalla violenza ma anche danneggiati nel loro percorso educativo alla cui base non può che esservi la costruzione di un’autentica fiducia nei riguardi dello Stato e di coloro che lo rappresentano, fiducia gravemente minata da quanto accaduto; la comunità della polizia penitenziaria, composta per la grande maggioranza da uomini e donne onesti, che adempiono lealmente il proprio dovere, spesso in condizioni di lavoro difficili e poco curate dal punto di vista psicologico; la comunità delle famiglie degli agenti coinvolti, anch’essa travolta dalle pagine di cronaca e provata psicologicamente dal timore di ritorsioni e vendetta».

E i vescovi della Campania in questi giorni hanno aggiunto parole sagge scrivendo alla ministra Cartabia: «La risposta alla delinquenza non può essere solo il carcere. Si dovrebbe lavorare affinché le dinamiche di vendetta siano elaborate e sanate attraverso la creazione di percorsi e di strutture educative, dove la persona è aiutata a cambiare. Crediamo, insieme a lei signora ministra, in una giustizia dal volto umano, come lei ha più volte affermato». «Il carcere è una questione sociale, è lo specchio in cui sono riflesse in maniera drammatica le contraddizioni della società – prosegue la lettera inviata da monsignor Antonio Di Donna, vescovo di Acerra e presidente della Conferenza episcopale della Campania. Ci troviamo di fronte a un’emergenza educativa spaventosa, profonda e insostenibile».

Vorrei partire dalle parole dell’arcivescovo di Napoli e dei vescovi della Campania, una regione importante non solo per il Sud d’Italia. Quel che è accaduto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere fa emergere con durezza il tema cruciale delle violenze nelle carceri. La vittoria del calcio agli Europei ci ha mostrato una volta di più un’Italia capace di unire “cuore” e “testa” nei momenti sportivi che “contano”. Adesso è tempo di mostrare la stessa capacità sui temi sociali più “caldi” del nostro Paese. E questo delle carceri, lo è. L’art. 27 della nostra Costituzione afferma due princìpi fondamentali. Primo: “la responsabilità penale è personale” ed esprime l’impossibilità di perseguire qualcuno che non sia il reo, come avviene invece con la rappresaglia; secondo: “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato” e sottintende l’inutilità di una funzione meramente punitiva. E allora con le violenze in carcere cosa accade?

Accade che la società si “addormenta”, non vediamo più il problema, ci facciamo trovare in balìa di un pericoloso senso di pigrizia anche sociale. In fondo il carcere, le carceri, non sono un problema nostro. Sono lì, edifici chiusi, separati dal resto della società, non hanno a che fare con la mia vita, con la nostra vita. Problema risolto? No, il problema carcere, il pianeta-carcere è tutt’altro che risolto. La stessa presenza degli edifici, delle celle, dei detenuti uomini e donne, stranieri, minori, e perfino bambini, deve inquietarci e spingerci fuori dal torpore della pigrizia.
Questa pigrizia (che ci sembra innocua, ma non lo è affatto) spinge la giustizia a essere “spietata”, in un atteggiamento senza più la “pietas”: non solo non aiuta a cambiare, ma rende meno umani e lascia aperta una ferita nella società. È necessario scendere nelle profondità dell’animo sia del colpevole sia dell’offeso. In modi ovviamente diversi, ambedue sono chiamati ad atteggiamenti nuovi che evitino sia la vendetta sia l’indurimento. E in questo è chiamata in causa anche la società di cui ambedue fanno parte, per ritessere un tessuto lacerato.

Lo diceva con grande chiarezza Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2002: «Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono». E ci sono momenti internazionali in cui pace, giustizia e perdono si sono riunificati in una proposta sociale di grande importanza. Un esempio per tutti è il Sudafrica del dopo-apartheid. E non solo. Per noi, in Italia, si tratta di uscire dalla pigrizia che ci fa prendere la via più corta, sbrigativa, apparentemente semplice: il carcere, la pena detentiva. La strada più lunga, però più produttiva, è illuminata dall’idea della giustizia riparativa, di una funzione educativa e rieducativa della pena, affinché sia possibile il “mai più”. È una strada che si può percorrere se abbiamo in mente un progetto di società futura. E nel nostro progetto dobbiamo dare corpo a un’utopia: vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti, o pronipoti, possano vivere in una società dove le carceri, se ci sono, debbono essere molto diverse. Anzi, quasi a scomparire. Perché l’obiettivo è migliorare tutta la società, generazione dopo generazione, e la giustizia diventa giusta se è riparativa e se è davvero ispirata alla rieducazione. Non una società senza pena, ma deve essere redentiva, fonte di cambiamento. Per arrivare alla méta, o solo per cominciare a tracciare una strada che in Italia c’è già con la legge Gozzini, dobbiamo essere in grado di fornire risposte di testa e non di pancia.

Il Vangelo – che è utopia, non astrazione ingenua – ce lo dice: la vendetta per i cristiani è esautorata, grazie alla proclamazione di una giustizia maggiore. In una parola, con Gesù si recupera quello che il Creatore volle fin dall’inizio e che la malizia degli uomini aveva rovinato. Nella predicazione di Gesù si manifesta in pienezza la giustizia intesa come riconciliazione e comunione nuova tra le persone. La frase “ama il tuo prossimo come te stesso”, che Gesù estrae del libro del Levitico (19,18), si trasforma nel secondo comandamento della nuova Legge e suppone un “no” deciso alla vendetta. Già nella prima parte del versetto del Levitico si diceva: non ti vendicherai né serberai rancore ai figli del tuo paese. La vendetta è sempre l’antitesi dell’amore al prossimo. È significativa la risposta di Gesù a Pietro, che gli chiede se deve perdonare sette volte. Gesù capovolgendo l’affermazione orgogliosa e violenta di Lamech (Genesi 4,24) risponde: non solo sette volte ma settanta volte sette.

La pena deve rispettare la persona, la sua integrità, la sua personalità. Ed invece abbiamo visto calpestata la dignità personale dei detenuti da parte di persone che rappresentano lo Stato. Non deve accadere più, siamo d’accordo. Però allo stesso tempo dobbiamo impegnarci a fondo affinché il “mai più” non sia lo slogan di turno ma diventi un vero e proprio programma politico e sociale; di più: entri a far parte di un progetto nuovo di convivenza civile, di costruzione di alternative, di dignità per tutti. La vera giustizia si realizza quando salva e rimette l’uomo in piedi, lo reintegra, lo include, fornisce una nuova opportunità, una seconda, terza… opzione. La Chiesa ci dice che di fronte a problemi complessi occorre guardare a tutta la persona umana, considerarla nelle sue dinamiche e aprire sempre la porta alla misericordia e alla speranza.

Ora è necessaria, anzi indispensabile, una politica all’altezza dell’ideale riparativo, con misure concrete, prima di tutto lasciando uscire quei minori che vivono in carcere con le loro madri, quindi adoperarsi per l’umanità dei trattamenti e per la messa in atto di misure capaci di restituire dignità, capacità, lavoro, per tutti i cittadini e tra loro per i detenuti. Usciamo dalla pigrizia del nostro individualismo, dei facili slogan “non mi tocca”, “non mi compete”. La pandemia ci ha dimostrato che tutti siamo toccati, a tutti compete fare qualcosa, tutti siamo collegati. Noi siamo un “Noi”. Anche con i carcerati.