L’inumano lascia le sue tracce visibili, a volte nei corpi delle vittime, a volte nel corpo dell’aguzzino. Sono tracce appena percettibili che si celano nei dettagli, in uno sguardo, in una forma o in una postura. Del corpicino spiaggiato del bambino migrante colpiva la postura, le piccole braccia abbandonate all’indietro come fossero il segno dell’abbandono di ogni speranza nell’uomo, il segno dell’atrocità impietosa che gli affondava il viso nella sabbia senza più protezione. Allo stesso modo l’inumano traligna a volte dai corpi o dai gesti dei carnefici. Come quello della signora che durante lo sgombero di un campo rom di Ponticelli sputa a una donna con la figlia di pochi mesi in braccio “ma sbaglia bersaglio e colpisce la faccia della bambina”. Così come l’inumano si rende manifesto nelle schiene ricurve dei carnefici ritratti da Caravaggio. Uomini di spalle, senza volto o con il volto in penombra ai quali l’inumano ha tolto l’identità, la possibilità di uno sguardo.

Così come balugina sulla schiena luminosa di muscoli del carnefice curvo sul corpo già abbattuto di San Giovanni Battista, che schiacciando la testa della vittima con la mano sinistra torce il braccio destro all’indietro, per portare la mano al coltello appeso alla cintola, per il gesto finale della decollazione. O come anche nello sguardo vuoto del soldato dal collare di aculei di ferro che compare nella Incoronazione di spine di Hieronymus Bosch, di cui parla Marco Revelli, traendone l’insegnamento di quel terribile “odio secco”, un odio «scevro da passioni come da motivi dichiarabili … non l’odio della vittima per l’aggressore … ma l’odio senza soggetto (senza interiorità da parte di chi lo prova) l’odio come ‘cosa’», senza dolore e senza rancore, senza ragione alcuna che davvero lo muova contro la vittima delle sue inumane sevizie.

Abbiamo rivisto quel lampeggiare d’inumanità nella schiena larga e possente di un agente coi capelli bianchi, senza volto e senza identità, col manganello in mano mentre ficca il ginocchio nello stomaco di un detenuto piegato in due dalle percosse. L’abbiamo visto nel luccichio del casco nero di un altro dello squadrone, in tenuta antisommossa, che prende a manganellate un detenuto caduto in terra. Era il luccichio dell’elmo del soldato che in un altro capolavoro di Bosch, il Cristo portacroce, sorride bolso e inebetito anticipando l’orribile corteo con lo sguardo perso nel vuoto. Ecco, quel Cristo annichilito ed umiliato dagli sgherri inconsapevoli, proprio nello svelare l’atrocità del suo destino, testimoniava della possibile futura umanità dell’uomo.

Ma noi abbiamo disimparato ad avere cura del futuro e fiducia nell’uomo. Abbiamo dissipato tutto quello che restava del nostro patrimonio di umanità. I fatti di Santa Maria Capua Vetere stanno lì a testimoniare questa dissipazione e questa perdita di senso dell’essere uomini e della necessità inderogabile e improcrastinabile di proteggerci dal precipitare nell’inumanità. Quei fatti ci pongono davanti, non al deragliamento dalla normalità, ad una caduta imprevista ed imprevedibile nella brutalità di un gruppo. Quegli squadroni hanno visto, hanno capito, hanno annusato l’aria ed hanno lasciato che il disarmo messo in atto dalla collettività intera e dalla politica che la governa e che la esprime giungesse ai suoi esiti finali e inevitabili.

La strumentalità con la quale ogni disegno di riforma del carcere è stato abbandonato, l’indifferenza con la quale si sono disinvestiti tutti i propositi di ristrutturazione della pena e di smantellamento dell’opera di assidua reificazione del condannato, obnubilando salute fisica e mentale ed affettività, hanno riprecipitato l’istituzione carceraria in una disperata condizione di arretratezza fisica e morale. Hanno inevitabilmente prodotto quel rapporto di feroce contrapposizione fra collettività sana e carcere come discarica del male, fra detenuto e sorvegliante del detenuto in quel cieco vincolo di violenza nel quale vince chi è più feroce. Ma quelle mani, quei volti coperti dalle mascherine e dai caschi lucidi degli agenti, e il consenso che li circonda nella società civile, li abbiamo inoculati, incubati, nutriti e svezzati nel tempo, privando l’accusato e il condannato di ogni diritto al rispetto, di ogni difesa della dignità, di ogni residuo di umanità, riponendo nella penalità e nel carcere una ridicola fiducia di sicurezza e di redenzione.