Sono dedicate proprio a lui, Nelson Mandela, le Regole delle Nazioni Unite che stabiliscono gli standard minimi delle condizioni di detenzione. Lo ha deciso l’Assemblea generale Onu nel dicembre del 2015 quando le ha adottate dopo anni di lavoro. Il primo testo, infatti, risale al 1955, quando ancora le ferite della Seconda guerra mondiale erano aperte e il ricordo delle violazioni dei diritti delle persone private della libertà, dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti era vivo e doloroso.

Le 95 regole adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento degli autori di reati definivano le norme minime universalmente riconosciute per la gestione delle strutture detentive e per il trattamento delle persone detenute. Stabilivano cioè gli standard minimi, al di sotto dei quali nessun Paese doveva mai scendere. I principi fondamentali erano due: il rifiuto della discriminazione sulla base dell’origine etnica, del colore, del sesso, del linguaggio, della religione, della politica o di altre opinioni, della nazionalità o contesto sociale, della proprietà, della nascita o di altri status; e il rispetto del credo religioso e dei precetti morali della comunità a cui la persona detenuta appartiene.

Le regole saranno approvate dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite con una prima risoluzione del 1957 e saranno poi rivedute con una successiva risoluzione nel 1977. Ma bisognerà aspettare il 2011 perché l’Assemblea generale istituisca un gruppo di esperti intergovernativi con il compito di rivedere e aggiornare il testo, e altri quattro anni perché si raggiunga un documento condiviso. Si arriva così al 2015 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta gli Standard minimi delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, scegliendo di chiamarli Nelson Mandela Rules, per onorare la memoria del Presidente sudafricano che trascorse 27 anni della sua vita in un carcere. Cinque principi di base, a cominciare dal diritto di ognuno a essere trattato con il rispetto dovuto alla propria intrinseca dignità e valore come essere umano, per un totale di 122 regole suddivise in diverse aree tematiche.

Come le precedenti, queste regole non vogliono descrivere un modello di istituzione penale, ma si limitano a definire ciò che è generalmente accettato come buoni principi e pratiche nel trattamento delle persone detenute e nella gestione delle carceri. Ma se la sorella maggiore del 1955, si limitava a definire la soglia minima di accettabilità al di sotto della quale un determinato aspetto rischiava di configurarsi come trattamento inumano o degradante, con una sorta di obiettivo al ribasso, le Nelson Mandela Rules puntano più in alto, invitando gli Stati a considerare gli Standard minimi come un punto di partenza, come uno stimolo verso un impegno costante a innalzare i livelli di tutela delle persone private della libertà. Essi indicano cioè obiettivi accessibili, seppur nella differenza dei contesti culturali e politici dei vari Paesi, e nello stesso tempo in grado di far evolvere una situazione verso un suo progressivo miglioramento, in una prospettiva, per così dire, generativa.

Le Nelson Mandela Rules delle Nazioni Unite, insieme alle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2006 e aggiornate recentemente nel luglio 2020, e agli Standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definiti sulla base delle visite che il Comitato effettua ogni anno, costituiscono un insieme di soft law, cioè di norme non giuridicamente vincolanti. Qualcuno per questo motivo considera quell’aggettivo soft sinonimo di debolezza se non di inefficacia. Ma così non è. Sempre più le soft law condizionano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Sempre più sono recepite come riferimenti forti, seppur non obbliganti. Sempre più la loro forza giuridica attenuata presenta una legittimità internazionale che difficilmente può essere negata. La loro efficacia si basa su una logica diversa: non sul dover fare, ma sulla condivisione e sul cambiamento della cultura, che è alla base delle scelte e delle azioni.

Il recente richiamo alle Nelson Mandela Rules fatto dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine è un segnale importante in questa direzione. Queste regole, non vincolanti sotto il profilo giuridico, non possono e non devono essere ignorate, anzi devono fare da guida a cambiamenti normativi e culturali tesi al miglioramento delle condizioni di vita delle persone private della libertà e dell’effettività dei loro diritti, memori del contesto in cui tali regole sono nate: all’indomani, cioè, di un periodo in cui l’integrità psicofisica e la dignità delle persone non era considerata un bene inviolabile, in cui parlare di diritti delle persone detenute appariva un nonsenso, in cui la discriminazione aveva seminato morte e violenza.

Il richiamo della Ministra è, dunque, un invito anche al nostro stesso Paese non solo a rispettare tutti gli standard minimi di detenzione, ma ad andare in quella direzione che le Nelson Mandela Rules indicano: il superamento, cioè, di una logica minimale. Una direzione perseguita anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, attraverso le Raccomandazioni contenute nei Rapporti sulle sue visite. Le Nelson Mandela Rules, dunque, segnano una svolta verso un cambiamento possibile, come possibile e reale è stato il superamento non violento del regime dell’Apartheid in Sudafrica.

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Nei prossimi giorni sul Riformista torneremo a parlare di Nelson Mandela, dell’iniziativa di riconciliazione e pacificazione che portò avanti in Sudafrica dopo la fine del regime dell’apartheid. Pubblicheremo anche alcune delle “Mandela Rules”, come quelle sull’isolamento: ignorate per chi in Italia è detenuto in regime di 41bis.