Giù le mani da Marta Cartabia, per favore. Non abbiate fretta, non tiratela per la giacchetta. O per la frangetta, così facciamo tre rime. La cosa più sbagliata che potremmo fare noi garantisti irriducibili, noi che abbiamo sognato dai tempi di Alfredo Biondi e Filippo Mancuso un ministro come lei, è quella di impiantarle sul corpo la nostra bandierina e di ucciderla. Si, di ucciderla, soprattutto visto che la presidente emerita della Corte costituzionale si ritrova addosso la veste di Guardasigilli in un governo così strampalato, soprattutto sulla questione giustizia. Un po’ come se Rossana Rossanda avesse diretto (e fosse in qualche modo costretta a farlo) un giornale con all’interno Sansonetti e Travaglio.

Marta Cartabia è persona cortese e molto ferma. Non si devono confondere la sua concretezza e la sua capacità di trovare punti d’incontro con qualche forma di cedimento. E non occorre la lente d’ingrandimento per decifrare le parole e le virgole di quell’ordine del giorno, votato da tutta la maggioranza che sostiene il governo Draghi, che sembra scritto da Calamandrei. E che contiene due punti costituzionali di non ritorno, il giusto processo e la rieducazione del detenuto. Non stiamo parlando di qualche astrazione, o di quei riferimenti generici che vanno bene in qualunque comizio elettorale, tanto dopo la vittoria…campacavallo. Ci sono la vita e la storia di Cartabia a parlare chiaro. Il fatto che da vice e poi da presidente della Corte costituzionale sia partita dal carcere e dalla verifica che la detenzione non ferisse in alcun modo la dignità della persona prigioniera, non va scambiato per attenzione di tipo assistenziale. Il suo discorso sulla dignità esposto pochi mesi fa agli studenti dell’università Bicocca di Milano era tutt’altro che pietistico: “incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualsiasi cosa sia arrivata prima”. E lanciava l’idea che “la pena debba guardare sempre al futuro”.

Concetti espressi nell’ordine del giorno votati dalla Camera. Il famoso “lodo Cartabia”. Sono punti da cui non si può tornare indietro. E sono legati al processo, essendo giusto processo e dignità del carcere due luoghi congiunti come fratelli siamesi. Se volgiamo lo sguardo indietro, ma non di tanto, a quelle due sentenze-simbolo della Corte costituzionale che si sono infilate come un sottilissimo bisturi nella legge “spazzacorrotti” dell’ex ministro Bonafede e nelle normative antimafia, troviamo le impronte del ministro Cartabia. Nella prima legge, che ha equiparato i reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e terrorismo, la bocciatura della retroattività nell’applicazione della pena. Spiegata in modo semplice ma fermo, secondo lo “stile Cartabia”: «La Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale, che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore». Nella seconda, un principio addirittura rivoluzionario, che spezzava il principio “ostativo” che dal 1992 privava i condannati per reati di mafia o terrorismo del diritti elementari previsti dall’Ordinamento penitenziario, quali i permessi premio, a meno che non facessero i “pentiti”.

Aver citato in modo perentorio la “funzione rieducativa della pena”, aprirà sicuramente quelle “finestre” ricordate anche dalle parole di papa Francesco, che hanno portato il nuovo Guardasigilli appena nominato a colloquio non con i capi del Dap, ma con il Garante dei detenuti. È certo che la giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza che nei mesi scorsi, mentre il Covid si spargeva a macchia d’olio nelle carceri, è stata mortificata dall’ondata di giustizialismo grillino, ritroverà vitalità. Da che cosa lo si deduce? Sempre dal “lodo Cartabia”, dall’ordine del giorno votato dal Parlamento. Il cui senso è stato sottovalutato, soprattutto dagli esponenti del Movimento cinque stelle, così come da Giorgia Meloni, di cui non si ricordano precedenti battaglie garantistiche sulla prescrizione, né su altro tema delicato di giustizia. Lo dico senza darle della forcaiola, ma ben comprendendo (e conoscendo personalmente) le logiche dello stare all’opposizione.

Il fatto di aver legato, nel “lodo Cartabia”, la funzione rieducativa della pena ai principi del giusto processo è la chiave di volta per la modifica della legge Bonafede che ha abolito la prescrizione dopo il processo di primo grado. Che cosa vuol dire infatti affermare che la pena non può essere rieducativa se inflitta dopo troppo tempo, quando la memoria dei testimoni è inevitabilmente attutita, ma soprattutto la persona che viene condannata non è più la stessa, se non bocciare il concetto stesso di processo infinito? Discutere di prescrizione senza fretta, tanto più che gli effetti della sciagurata legge Bonafede non si vedranno prima di due anni, è opportuno. Inserire il principio del giusto processo come previsto dall’articolo 111 della Costituzione in una discussione generale, come ipotizzato anche dagli incontri che si erano già svolti al ministero tra avvocati e magistrati, può portare a risultati migliori che non piantare bandierine su un emendamento.

C’è anche qualche considerazione politica da fare. Il Partito democratico, che ha sempre saputo tenere in pancia garantisti e forcaioli con grande disinvoltura e che, al governo con i grillini, ha votato con loro le peggiori schifezze in tema di giustizia, potrebbe oggi cominciare a sganciarsi. Lentamente, non essendo la velocità nelle decisioni la sua caratteristica principale, ma forse lo sta già facendo. La proposta, avanzata in un’intervista al Dubbio da Walter Verini sulla “prescrizione processuale” che dovrebbe fissare tempi certi per le varie fasi del processo, oltre le quali non sarebbe possibile andare, è un primo passo cui sarebbe difficile dire di no.

Certo, ha regione il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza quando dice che la proposta è generica e ambigua se non si fissa una sanzione (quale anche la decadenza del processo) in caso di violazione. La norma va messa a punto in modo preciso, ma mi pare comunque uno strumento interessante per arrivare più avanti alla totale abolizione della legge Bonafede, senza la pretesa delle battaglie dei duri e puri che finiscono per fare solo testimonianza, senza portare a casa risultati. Cosa che ben conosciamo, noi garantisti irriducibili.

Il clima è cambiato, lo hanno notato tutti. E certe presenze al ministero, come quella di Francesco Paolo Sisto, aprono il cuore alla speranza. Ma (lo dico anche a lui) ci vuole pazienza. E anche, qualcuno mi perdoni per quel che sto dicendo, un briciolo di astuzia politica. Anche perché c’è un soggetto che per ora sta in silenzio, ma che è stato molto presente durante i due mandati di Bonafede, ed è quello della magistratura militante. Per ora stanno a guardare, in attesa di qualche passo falso, di qualche scivolone magari dettato dalla fretta. Per fortuna Marta Cartabia non è impulsiva come fu Matteo Renzi quando, da presidente del Consiglio, prima annunciò che avrebbe accorciato le ferie ai magistrati e poi, di fronte alle loro proteste, li schernì con un “brr, che paura!”. E se li rese nemici per sempre. La nuova Guardasigilli ha in testa alcuni chiodi fissi, che si chiamano prima di tutto principi costituzionali. Ha dimostrato di saperli applicare e lo dimostrerà ancora. Ma intanto, per favore, giù le mani da Marta Cartabia!

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.