La crisi, diceva Einstein, «può essere una grande benedizione per le persone e le nazioni, perché porta progressi. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. L’unico pericolo della crisi è la tragedia che può conseguire al non voler lottare per superarla». È da qui che dobbiamo partire: dalla volontà. La volontà di trasformarci, la volontà di metterci in discussione, la volontà di superare i nostri limiti. Sicuramente questi mesi che faremo fatica a dimenticare per le conseguenze drammatiche che stanno portando con sé, dal costo altissimo in termini di vite umane al prezzo enorme che il sistema economico sta pagando, hanno messo a nudo la debolezza di un sistema che si trascina da lungo tempo. La produttività italiana è ferma da 20 anni. Questo è un dato. Così come è un dato che, mentre tutti gli altri paesi europei sono riusciti a rimettersi in marcia dopo la grande recessione del 2008, l’Italia ha continuato a leccarsi le ferite, mese dopo mese, anno dopo anno. Senza mai uno scatto d’orgoglio risolutivo.

Anzi. Assistiamo da decenni a entusiasmi inspiegabili per incrementi del Pil al gusto dello zero virgola e a definizioni di eroismo attribuite agli imprenditori che, posso assicurarvelo, tutto vorrebbero essere fuorché eroi. È chiaro che qualcosa (e forse più di qualcosa) non va. E questo nonostante l’eccellenza imprenditoriale italiana ci sia e sia apprezzata in tutto il mondo. Ed è qui che entra in gioco questa crisi, che ha stravolto da cima a fondo la vita di ciascuno di noi, ma che può rappresentare il punto di svolta, il grimaldello attorno a cui far ruotare il cambiamento. Affinché ciò avvenga, però, la prima cosa da fare è quella di abbandonare la logica dominante del consenso elettorale che ci ha portato esattamente dove siamo e concentrarsi piuttosto su una pianificazione della politica economica orientata allo sviluppo con investimenti massicci in infrastrutture fisiche e digitali, una formazione diffusa e di qualità e pacchetti di incentivi per le imprese che innovano, crescono e conquistano nuovi mercati creando benessere e lavoro. Sì, perché questo è bene chiarirlo una volta e per tutte, così come ha anche recentemente ricordato il presidente Bonomi: il lavoro non si crea né per decreto né per statuto. Il lavoro lo crea il mercato.

E, in un mondo ormai piatto come ha dimostrato anche la diffusione pandemica del virus, il mercato è fatto di competizione globale. Non è pensabile che una impresa italiana debba attraversare le forche caudine di una burocrazia medievale e sopportare il peso di un fisco asfissiante, mentre i competitor nel resto del mondo si muovono in ben altri contesti. Questo significa farci correre con le mani legate dietro la schiena. Le imprese hanno fatto grande questo Paese. Questo Paese, però, troppe volte ha girato le spalle alle imprese, non rendendosi conto che il diritto insopprimibile al lavoro è legato non ai sussidi ma alla produttività. Capire questo, significa dare all’Italia un’idea di futuro. Che è poi quello che ci sta chiedendo l’Europa. E la proposta della Commissione Ue va considerata sicuramente per la quantità di risorse che riuscirebbe a suscitare, ma soprattutto perché ha un’idea di futuro. Non è un caso che l’Ue indichi nella riconversione digitale ed ecologica i due pilastri su cui fondare la ripresa. E sono quelli su cui i giovani industriali stanno investendo da tempo, nella consapevolezza che è questa la chiave del nostro Made in Italy ed è questo il percorso da seguire se vogliamo rimanere la seconda manifattura d’Europa.

Aggiungo che, il fatto che il Recovery fund, sia chiamato Next generation Eu non è un caso. C’è una nuova generazione di cittadini europei che è pronta a costruire la prossima Europa. E noi giovani imprenditori vogliamo camminare verso questo orizzonte. Ma serve che in Italia si apra a una stagione più lungimirante con politiche di lungo periodo per ridisegnare il volto delle nostre aziende, delle nostre scuole, delle nostre città, e quindi della nostra società. Non possiamo permetterci che le aziende siano costrette a chiudere perché mancano di liquidità. Perché gli viene tolto l’ossigeno ad esempio da una pubblica amministrazione che non paga i propri debiti o da un sistema del credito che obbliga a interminabili maratone burocratiche nonostante una garanzia statale.

Serve quindi una comune assunzione di responsabilità che muove dalla constatazione che il nostro Paese è a un bivio: possiamo continuare a fare le stesse cose e quindi voltare le spalle a ogni cambiamento, assumendoci la responsabilità dei risultati dopo un punto di cesura, ossia di crisi, come quello attuale, oppure possiamo rilanciare e rinascere mettendo mano a un grande piano di investimenti pubblici che non mandi sprecato nemmeno un euro di quelli che l’Europa ci sta garantendo e ci garantirà e dando vita a un Progetto per l’Italia che si fondi sui tre pilastri del futuro: occupazione giovanile, innovazione e sostenibilità. Da che parte stanno i giovani imprenditori mi pare scontato. Abbiamo scommesso su questo Paese e vogliamo continuare a farlo. La mia domanda, a questo punto, è una: da che parte sta chi ci governa? Dalla risposta dipenderà il futuro non solo nostro, ma dell’intero Paese.