Il dibattito del Riformista sul neo eletto presidente argentino
Javier Milei può solo comandare, certo non governare: il ‘golpe’ in salsa pop-social
Confesso che l’acconciatura di Javier Milei e la sua passione per i cani clonati sono l’unica nota divertente del neoeletto presidente argentino, anche per la semplice ragione che questo esponente della destra più estrema è un facinoroso e populista come Bolsonaro e Trump. Per tutto il resto, temo che sarà disastroso per un paese già in ginocchio.
Ma procediamo con ordine. La vittoria di Milei non si deve al suo programma economico (quello che piace agli ultra liberisti) ma alla sua marcata esibizione populista di castigatore della “casta” politica e burocratica da falcidiare con la motosega. Siccome abbiamo una certa esperienza di tali prese di posizione, avrei molti dubbi ad accostare la parola “verità” a chi vince le elezioni con queste premesse. Del resto, che Milei sia piuttosto allergico alla verità, persino a quella dolorosa della Storia, lo si intuisce dalla sistematica banalizzazione, che arriva fino alla negazione dei crimini dei regimi dittatoriali che hanno funestato la storia degli ultimi ottanta anni in Argentina.
Tre colpi di Stato militari, vent’anni complessivi di dittatura, compreso il sanguinoso settennato di Videla, con le decine di migliaia di vittime innocenti della repressione, inghiottite da quell’enorme fossa comune che divenne l’Atlantico. Il dittatore Videla, le cui ricette economiche riprendevano quelle di Pinochet in Cile, propose quello che funestamente fu definito “Processo di riorganizzazione nazionale”: combattere la corruzione; collocare l’Argentina nel mondo “occidentale e cristiano”; riorganizzazione neoliberista dell’economia, con massiccio ricorso alle privatizzazioni e taglio al bilancio dello Stato, salvo ricordare che al termine di questa infausta pagina della storia argentina l’inflazione era al 4mila%.
Nel 1976 ci fu un colpo di stato militare, oggi, in salsa pop-social, una presa del potere attraverso elezioni democratiche che, in caso di opposizione parlamentare, già dichiara di voler far ricorso al “plebiscito”. Non molto nuovo dunque questo Milei, basti ricordare l’analoga “democratica” vittoria elettorale del presidente della Tunisia Kais Saied che, per imporre la sua “visione”, ha ben pensato di sciogliere il parlamento e farsi votare una costituzione su misura.
Ma veniamo anche a questioni più pratiche. Un recentissimo articolo del New York Times racconta l’odissea quotidiana di chi deve fare i conti della spesa giorno per giorno. Se l’inflazione era arrivata al 140% in un anno, dall’elezione di Milei c’è stata una ulteriore impennata che, secondo le previsioni riportate dall’autorevole testata statunitense, potrebbe arrivare all’80% entro febbraio per alcuni generi di consumo fondamentali. In questo senso, dopo aver tagliato i sussidi al consumo, aver incrementato l’assegno di povertà appare come un’ulteriore dimostrazione di cinismo populista, visto quanto rapidamente quell’aumento verrà divorato dall’inflazione.
Ma è sull’ambiente che il negazionista Milei ha voluto subito dare il meglio di sé. In un’epoca in cui le politiche di contenimento dei cambiamenti climatici sono il centro del dibattito e delle norme globali, nonché i maggiori driver per l’economia, il pacchetto di riforme che Milei ha inviato al Congresso, di ben 664 articoli, sembra scritto da Attila il flagello di Dio. Il principio è che non ci devono essere vincoli per le attività produttive (e fin qui il neoliberista sorride compiaciuto) e che tali limiti debbano essere spazzati via anche per le foreste e per i ghiacciai. Insomma, gli incendi di boschi e foreste possono essere autorizzati dalle autorità locali (sic!) se servono ad ampliare il terreno agricolo o a realizzare nuove costruzioni e, udite udite, se non ci sarà risposta in 30 giorni vale il principio del silenzio assenso. Vedo già speculatori vari prendere appunti. Inoltre, si autorizzano le attività minerarie nelle Ande coperte da ghiacciai, con il concreto rischio di rendere ancora più precario quel delicato ecosistema.
Non parlo, per carità di patria, delle farneticazioni sulla possibilità di vendere parti del proprio corpo, in nome di un’idolatria della proprietà privata, che però non vale per l’aborto, in quanto il feto, secondo il neopresidente, non è “proprietà” della donna, o della rivendicazione delle Falkland, per lui come per Videla ora e sempre Malvinas. Piuttosto parlo del rischio concreto di una riduzione delle libertà, da quelle di sciopero a quelle di manifestare, Perché un presidente così può solo comandare, certo non governare. E, purtroppo, il prezzo più alto lo pagherà chi è già poverissimo.
P.s. Nella tormentata storia argentina degli ultimi decenni, ci fu un periodo di vera crescita economica, grazie a un presidente moderato e non populista, di origine piemontese, Arturo Umberto Illia, eletto negli anni ’60. Durante la sua amministrazione fu destinato il 23% del bilancio statale all’istruzione, la cifra più alta nella storia del paese, inoltre venne lanciato un programma di alfabetizzazione. Grazie a questo intervento, il prodotto interno lordo e le esportazioni industriali crebbero, si abbassò la disoccupazione, diminuì il debito estero e vennero varate, nel 1964, le leggi sul salario vitale minimo e sulle medicine. Nel 1966 fu rovesciato da un colpo di stato militare che, per prima cosa, tagliò la spesa pubblica per sanità, cultura e istruzione.
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