L’eccezionale capitolo quinto nella Teoria Generale di Keynes contiene una delle descrizioni più interessanti e illuminanti a proposito del funzionamento dei mercati finanziari: in particolare, Keynes illustra il meccanismo tramite cui una parte più o meno rilevante del capitale di un’impresa venga messa sul mercato, cosicché gli investitori iniziali –i fondatori- possano accrescere il capitale stesso dell’impresa con nuovi apporti di capitale, potendo beneficiare nel contempo di una maggiore liquidabilità dei propri capitali.

Non soltanto si tratta di vendere, possibilmente a prezzo generoso, quote esistenti della società così da ottenere un incasso immediato, ma anche di poter liquidare successivamente altre quote (a meno di accordi specifici tra azionisti o con i primi finanziatori dell’impresa) sulla base del prezzo fatto in borsa e aggiornato in maniera più o meno continuativa. Keynes giustamente rileva come questa valorizzazione in tempo reale dell’investimento abbia anche effetti negativi, che consistono nel fatto di dare spazio eccessivo alla speculazione finanziaria, intesa come l’attività di breve o medio termine finalizzata a beneficiare della volatilità dei prezzi stessi, con un atteggiamento che può essere rialzista o ribassista.

Il punto cruciale evidenziato da Keynes è che non raramente questi movimenti di prezzo siano di fatto scollegati dall’andamento del business dell’impresa, ma largamente guidati dalle aspettative formulate da chi opera sul mercato. Detto in termini banali: il valore di un titolo azionario potrebbe crescere semplicemente perché uno o più soggetti lo comprano nell’attesa che il valore del titolo cresca, cosicché l’eccesso di domanda fa salire il prezzo stesso (e viceversa nel caso di soggetti vendono in quanto si aspettano che il valore del titolo scenda). In entrambi casi potrebbe configurarsi quell’affascinante fenomeno delle aspettative che si autorealizzano, nella forma di un prezzo che sale perché molti (o pochi influenti) si attendono che salga e dunque comprano.

Avendo ben rammentato che Keynes amava speculare in borsa (e che i suoi capitali hanno avuto oscillazioni piuttosto selvagge), possiamo ragionare sul fatto che i rialzisti banalmente guadagnano quando comprano un titolo che nel tempo successivo sale di valore, mentre i ribassisti guadagnano in una maniera più “barocca”, i cui detrattori non esiterebbe a definire un po’ “sadica”: tale maniera consiste ad esempio nel vendere “allo scoperto” un titolo che non si possiede facendoselo prestare da chi lo possiede, per poi acquistarlo successivamente a un prezzo più basso, così da restituirlo a chi te lo ha prestato e intascare la differenza tra prezzo iniziale di vendita e prezzo successivo di acquisto.

Esiste ovviamente anche un approccio conservativo alla speculazione ribassista (altro che sadico) il quale consiste nel vendere un titolo che si possiede nel momento in cui si ritenga che nel futuro andrà sempre peggio, fino all’esito peggiore che è il fallimento, cioè l’azzeramento del valore del titolo. I nemici dei ribassisti sono piuttosto diffusi e ovviamente includono nel loro novero i proprietari dei pacchetti azionari delle società oggetto delle attenzioni dei ribassisti: in un celebre articolo dell’economista Owen Lamont intitolato “Go Down Fighting” si raccontano le aspre contese –per usare un eufemismo- tra i proprietari delle società quotate e i ribassisti, che spesso vanno a cercare informazioni sulle reali prospettive di tali società, alla ricerca dei bluff, cioè di stime eroiche degli utili futuri a cui poi corrispondono perdite ingenti, inesistenti fatturati, prodotti farlocchi eccetera.

Quando la scoperta di questi bluff è veritiera il ribassista meramente anticipa con il suo comportamento l’informazione che precedentemente era rimasta nascosta, guadagnandosi e mostrando il vero valore delle società in questione.

Tornando ai casi nostri, le strategie rialziste o ribassiste hanno successo non solo grazie al tempismo, ma anche a motivo della banale capacità (o fortuna) di capire meglio –e in anticipo sugli altri- i piani futuri di una data impresa. Nei giorni scorsi mi sono occupato ad esempio dell’andamento dei conti del Fatto Quotidiano, i quali nel 2022 si sono caratterizzati per la valorizzazione a 12,5 milioni del ramo d’azienda chiamato dedito alla produzione, distribuzione e vendita di contenuti multimediali, che è stato scorporato in una società autonoma –interamente posseduta dalla società quotata SEIF che possiede altresì come asset principale il quotidiano.

La valutazione del ramo d’azienda, magistralmente redatta dai professori Gimede Gigante e Andrea Cerri, è inclusa in una perizia di più di 100 pagine e ovviamente si basa sul piano d’azione (business plan) preparato dagli amministratori della società stessa sull’orizzonte temporale che va dal 2023 al 2025. Gli utili futuri attesi sono desunti da lì e vengono poi stimati per gli anni successivi fino al 2030 ipotizzando che gli andamenti dei primi tre anni proseguano negli anni successivi.

A pagina 99 e 100 del documento visionato (documento pubblico e scaricabile dal registro delle imprese in quanto allegato al verbale di conferimento di azienda della fine di dicembre 2022) si prevede ad esempio che i ricavi per abbonamenti a Loft TV crescano fino a 600mila euro circa nel 2025, quando nel 2021 erano pari a 200 mila euro circa. Ma la parte del leone nei ricavi della Loft Produzioni la fanno le vendite dei contenuti, che già negli anni scorsi hanno avuto una forte crescita, ma che fortemente dipendono da pochi clienti, in particolare dal canale Discovery. Dunque le decisioni prese da quest’ultimo, nel senso di incrementare o ridurre gli acquisti da Loft Produzioni, possono avere un impatto forte sull’andamento degli utili futuri. È ovviamente difficile fare previsioni ma non si può che notare ancora una volta –tornando al buon vecchio Keynes- che il prezzo di SEIF in borsa raramente trova riscontro in scambi corposi che rendano il titolo liquido. Quindi attenzione a non scottarsi le mani, sia come rialzista che come ribassista.