Tempio Pausania, nelle aule di giustizia dove salgono sul banco degli imputati Ciro Grillo e ad altri tre ragazzi, martedì c’è stata una deposizione fiume della giovane che ha denunciato il figlio del fondatore del movimento grillino e i suoi amici. Sul tavolo una sera d’estate in Costa Smeralda, era il 2019, e un’accusa di stupro. Ora, il mio essere profondamente garantista mi impone di esserlo soprattutto nei casi più gravi, quando una pensa: è indifendibile, perché altrimenti sarebbe garantismo a giorni alterni. È in questi casi che il garantismo deve avere la meglio e non bisogna cedere alla tentazione di puntare il dito, di lasciarsi andare a considerazioni di tipo giustizialista. Non sono io il giudice. Io non so dire quindi se gli accusati hanno effettivamente commesso uno stupro, per quello ci sono le aule di giustizia, i processi e i giudici. Sul tavolo, però, c’è anche il racconto della ragazza che ha sporto denuncia.

Nell’udienza a porte chiuse la giovane ha parlato per quasi sei ore rispondendo alle domande del procuratore Gregorio Capasso e raccontando gli attimi di terrore vissuti quella notte e la sua vita dopo quella notte. «Ero paralizzata, non riuscivo neanche a muovermi. Ho tentato più volte il suicidio dopo quella sera – racconta in aula – correvo sui binari, incontro al treno. E poi tanti episodi di autolesionismo. Oggi soffro di disturbi alimentari». Un racconto drammatico che trova la sua carta gemella in tantissimi racconti di ragazze che come lei si portano addosso i segni, indelebili, di una violenza reale o percepita come tale.

In queste righe cambia poco perché ogni volta che leggo, ascolto i racconti di queste ragazze che hanno qualche anno in meno di me mi chiedo come sia possibile che siamo arrivati a tanto? Quando è successo che la società è sprofondata in questo baratro? Quando ci siamo abituati a sentire storie così? Quando è successo che la violenza, qualunque forma di violenza, è diventata la normalità? Mi si potrebbe dire che c’è sempre stata ma che ora con i social, l’informazione e la tecnologia lo sappiamo e prima no. Bene, ma neanche tanto.

Non è e non può essere una giustificazione a una generazione perduta tra il nulla e la violenza. Non può essere un alibi da contrapporre a una donna che dice: ho paura di camminare in strada da sola. Io sono una donna e ci cammino in strada da sola, e ho paura. Paura perché sento come mie le storie che ogni giorno, ogni giorno, leggo e ascolto. Perché so che il ragazzo che mi fissa in metro quasi sicuramente non vuole chiedermi come mi chiamo e offrirmi un caffè. È questo clima del sospetto, della tensione costante verso chi siede di fronte a noi che avverto, che sento sempre. È questa costante paura dell’altro, della mancanza di punti fermi, di valori (ora, non voglio fare la morale a nessuno né parlare come una centenaria prossima all’al di là) di qualsivoglia rispetto verso l’altro. Io non lo so se questi ragazzi hanno violentato oppure no una ragazza in quella villetta della Costa Smeralda, ma so che insiste un problema culturale, sociale, che non può essere ignorato. Costringere le donne a vivere nella paura, sempre, non è degno di una società che può definirsi civile. E non c’entra la legge, c’entra che non siamo in grado di spiegare ai più giovani cosa è bene e cosa è male. Viviamo, semplicemente, ogni giorno nella banalità del male.

Avatar photo

Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.