La produzione letteraria di Emanuele Trevi è un universo coeso, fedele a sé stesso. Sono gallerie di ritratti quelle che l’autore, con l’arguzia di chi conosce riconosce ed esplora gli strati anche più cavernosi della coscienza altrui, con la cura per i dettagli di un cesellatore e con la grazia del grande scrittore, compone a partire da un’esistenza toccata o semplicemente sfiorata.

Stavolta, tuttavia, dopo Due vite, reduce nel 2021 dalla vittoria del Premio Strega, Trevi sceglie di lavorare sul ritratto più difficile: quello di un estraneo conosciuto fin dai primissimi istanti di vita: il padre. La casa del mago (Ponte alle grazie) è il tentativo scrupoloso, metodico e lieve, struggente e ironico, di fare chiarezza su Mario Trevi, riportandolo in vita frammento dopo frammento a partire da ciò che di plastico resta di lui: una casa. Il mago, dunque, è il celebre psicoanalista junghiano. La casa è quella dove suo figlio sceglie di trasferirsi e dove, nella riservatezza e nei silenzi, aveva vissuto suo padre, in cui risuonano in un’eco i moniti rassegnati di sua madre: “Lo sai com’è fatto”, e in cui vibrano ancora le presenze di chi si è succeduto su una poltrona girevole per sanare, grazie a quel mago dell’inconscio, prudente e schivo curatore di anime, le proprie ferite.

Nel celebre Libro rosso, Jung sprigiona la sua immaginazione attiva, riflettendo, fra le altre cose, su quanto ogni uomo compia fin dalla nascita un doppio movimento: cerca l’attenzione di qualcuno, si avvicina nel desiderio di riceverne le cure, l’accettazione e l’amore, ma al contempo, rivendica la propria unicità alla ricerca del suo posto nel mondo. Un doppio passo che nel rapporto fra padre e figlio trova il proprio acme assoluto, naturale e umano, impossibile, e da cui dipende molto della vita futura del figlio. Piccoli semi che contengono al loro interno tutto il corredo necessario per diventare un albero: non siamo così diversi, noi umani. Un albero che sarà questo o quello, a seconda di quale ambiente lo accoglierà assistendo alla crescita.

L’ambiente in cui Trevi si muove, fisicamente o attraverso il potere della memoria e della fantasia, è una casa ora fasciata dal silenzio delle notti in cui rilegge Jung alla ricerca del padre, ora occupata abusivamente da presenze fantasmatiche. È uno spazio che contiene una ressa di frasi e facce, di storie e di dolori, uno spazio a tratti inviolabile come la coscienza taciuta in cui amava rifugiarsi suo padre. Cosa si nascondeva dietro agli enigmatici silenzi paterni? Il suo arrière-boutique, scrive Trevi, riferendosi ai frequenti suoi retropensieri, e un po’ rimpiange di non averli avuti in eredità, lui che in questo si sente diverso e più vicino alla madre: “[…] per me esistono gli altri, i sentimenti che provano per me, quelli che io provo per loro, non sto solo nemmeno quando dormo, si infilano tutti nella mia testa, e anche nei sogni continuo a temere che non mi vogliano più bene.” Coltraltare di una vita spesa nel silenzio carico delle parole dei propri pazienti, è la pratica liberatoria del disegno.

Oppure quella di lucidare dei sassi. Un modo di distrarsi a cui Mario Trevi ha dedicato un numero incalcolabile di ore, mentre suo figlio era lì a chiedersi il perché di un compito così noioso e mentre sua madre ripeteva indomita: “Sai com’è fatto”. Ma è da questo strano lavorio che Trevi coglie una similitudine col suo mestiere di scrittore, quando si rende conto che, senza saperlo, quella era la prima lezione di scrittura che ha ricevuto in dote. Le parole non sono diverse dai sassi disposti sulla scrivania in attesa di essere maneggiati, facendo sì che la ripetizione meccanica di un movimento possa svuotare la mente del mago dal dolore degli altri, o dal suo, dislocando il centro della personalità verso un margine: il pollice e l’indice.

I ciottoli, come le parole, si confondono fra milioni di altri uguali e se non si conferisce loro un ruolo, se non s’infonde nella loro opacità un po’ di vita, restano privi di significato. Tutto sta nel saperli sfregare per bene. Vale altrettanto per le parole. Ed Emanuele Trevi, in questo, è di sicuro un mago.

Annalisa De Simone

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