Ho scritto: «il marchio che si porta addosso». Ma glielo abbiamo appiccicato noi. È un contrassegno che gli imponiamo noi. Perché è colpa della comunità civile e politica che organizza in questo modo il sistema carcerario e delle pene se quel bambino non solo non può vedere il genitore ma deve anche vergognarsi del motivo per cui non può vederlo.  E a ricadere su di lui non è la colpa del genitore che delinque, come una retorica balorda risponderebbe: a ricadere su di lui è la colpa di quella comunità, un complesso sociale indifferente davanti a una simile mortificazione e in ogni caso incapace di adottare alternative a quest’unica soluzione afflittiva. Una soluzione ingiusta e violenta. Una soluzione ingiustamente violenta. Anche senza aprirci verso una prospettiva decisamente abolizionista, infatti, potremmo almeno comprendere che la privazione della libertà dovrebbe riguardare unicamente i soggetti attualmente pericolosi. E non pericolosi perché beccati ad alterare un bilancio o a rubare una macchina, cose semmai da sanzionare con risarcimento e lavoro: ma pericolosi per l’incolumità e la salute delle persone.

Questi devi isolarli per forza, magari senza trattarli da cani (sempre che valga il riferimento, visto che i cani sono spesso trattati meglio di tanti detenuti). E in quest’altro sistema, se fossimo completamente civili, penseremmo anche ai figli di questi pochi che purtroppo devono essere isolati dalla società. Forniremmo loro assistenza, dimostreremmo loro simpatia, assicureremmo loro ogni cura possibile per rimediare almeno un poco al torto che siamo costretti a fargli imprigionandogli la famiglia.  E intanto agli altri l’avremmo restituita, e ci sarebbero meno bambini costretti ad addormentarsi e a svegliarsi pensando al padre in galera. E ad abbassare gli occhi quando gli chiedono dov’è.