Si parla sempre delle “vittime”, ma solo di alcune. Perlopiù ci si riferisce alle vittime degli illeciti: nei discorsi di quelli che, per vederle ripagate, vogliono sanzioni più gravi e “certezza della pena”. Altre volte si tratta delle vittime dell’ingiustizia: nei discorsi di quelli che della giustizia denunciano errori e abusi. E non c’è dubbio sul fatto che quelle e queste abbiano diritto di ricevere attenzione e cura, e va benissimo che se ne parli. Ma di altre vittime non si parla né ci si preoccupa mai, e sono le più numerose e spesso fragili. Sono i figli, spesso bambini, dei detenuti. Sono i loro compagni e le loro compagne. Sono i loro genitori.

Non si pensa abbastanza attentamente, sempre che ci si pensi, a come l’inciviltà del carcere, così oscena e pressoché sempre inutile per come infierisce sulla vita del detenuto, si moltiplichi e diffonda scaricandosi impietosamente su queste vittime ulteriori e indiscutibilmente innocenti. Qui non si parla di vaghe notizie di malagiustizia di cui è possibile non sapere, o di sentenze opinabili che possono sfuggire al controllo civile degli osservatori: qui si parla del fatto notorio e indiscutibile, determinato da una giustizia teoricamente anche impeccabile, per cui la detenzione di uno produce la sofferenza di altri. Ed è un effetto del processo anche più garantito. È una conseguenza della decisione anche più corretta e meglio motivata. Perché anche il processo che più efficacemente protegge il diritto della difesa ricasca su quelle vittime quando giunge all’irrogazione della pena detentiva.

Anche la sentenza più attenta e scrupolosa, quando comanda il carcere, libera tuttavia una violenza che si dirige contro la vita di quegli innocenti. Come possiamo permettere che un bambino sia separato in questo modo dal genitore, e che sia costretto a vederlo, semmai può vederlo, come si fa visita a un allevamento di bestie? Come possiamo non vergognarcene? Permettiamo che un bambino non solo sia privato del diritto di frequentare il padre o la madre, ma oltretutto che cresca nell’imbarazzo, nella vergogna per il marchio che si porta addosso: di essere figlio di un detenuto. Immaginiamola, questa domanda generalmente innocua e routinaria, il primo giorno di scuola, ai giardinetti o durante una merenda: «E il tuo papà che lavoro fa?». Metterebbe a disagio una moglie dover rispondere: «Mio marito è in prigione». Ma un bambino!