In Italia è presente una bruciante questione salariale riconducibile a una serie di fattori sedimentati e convergenti: bassa crescita e innovazione, investimenti al palo, pressione fiscale eccessiva sui lavoratori, scarso incremento di produttività, frammentazione e polverizzazione del sistema produttivo, livelli ancora insufficienti di partecipazione. A tutto ciò si aggiunge da tempo anche la scure di una inflazione pesantissima. Un quadro del genere richiede un ventaglio di azioni che includono anche la definizione di un salario minimo, ma rigorosamente di natura contrattuale. La via è quella dell’estensione, settore per settore, del trattamento economico complessivo dei contratti nazionali maggiormente diffusi e applicati. Non serve una legge sulla rappresentanza: si prendano i dati già in possesso dell’Inps, si indichino i contratti leader e si disponga l’erga omnes.

L’alternativa di un quantum orario indifferenziato stabilito direttamente dalla legge determinerebbe uno schiacciamento verso il basso dei salari medi, l’uscita dalle tutele dei CCNL di migliaia di imprese, l’arbitrio di fatto della politica su dinamiche che devono restare flessibili e adattive e ancorate all’autonomia negoziale e contrattuale delle parti sociali. Nessuna invadenza legislativa.

È la stessa Commissione Europea a considerare le relazioni industriali ed il rafforzamento / estensione della contrattazione collettiva il miglior strumento per la tutela salariale e sociale dei lavoratori in Italia, dove la buona contrattazione confederale, unica in Europa, copre il 98 per centro della forza lavoro. Per dare un termine di paragone: la Germania è sotto il 60 per cento.
Il salario minimo legale rischia di offrirsi come alternativa al sistema di relazioni industriali e alla contrattazione collettiva nazionale, senza risolvere le vere criticità presenti , che sono la povertà salariale derivante da lavori poco qualificati discontinui e ad orario ridotto, da part time involontario, un tessuto produttivo che vede un eccesso di microimprese, con bassissima produttività, larga diffusione di lavoro nero e irregolare, tantissimi stage , tirocini extracurriculari, false partite iva e cooperative spurie . Qui si annida tanto lavoro povero e precarietà che molti fingono di non vedere.

Il rischio è inoltre quello di un avanzamento del processo di “aziendalizzazione” dei rapporti di lavoro, slegati dalla contrattazione nazionale. Tendenza che sarebbe ampiamente favorita da una legge che dovesse stabilire come unico obbligo quello di garantire una soglia minima di retribuzione.

Paradossalmente, anche il tentativo di evitare la proliferazione dei contratti pirata potrebbe raggiungere un risultato inverso. Per le organizzazioni firmatarie di questi contratti, infatti, sarebbe sufficiente non debordare dalla soglia minima per avere piena legittimità. Inoltre in un contratto non c’è solo scambio lavoro-salario: ci sono premi e istituti contrattuali importanti che solo il contratto può assicurare: ferie, tredicesime, maggiorazioni, straordinari, welfare negoziato, sanità integrativa, previdenza complementare, formazione continua e tanto altro. L’attestazione su minimi salariali legali cancellerebbe decenni di conquiste, stabilirebbe un arretramento in termini di tutele e diritti.

Se c’è un tavolo da aprire è su una nuova politica dei redditi che invoca misure articolate e non demagogiche: rafforzare la crescita, promuovere politiche di aggregazione per un rafforzamento dimensionale delle imprese, aumentare salari e retribuzioni , costruire un patto fiscale progressivo e redistributivo, promuovere la contrattazione di secondo livello, detassando interamente i suoi frutti ed allargandoli ai settori pubblici , rinnovare e innovare i contratti pubblici e privati scaduti e in scadenza, esaltare le relazioni industriali e la partecipazione nei luoghi di lavoro. Governo, sindacati, mondo delle imprese devono trovarsi dalla stessa parte, ognuno esercitando la propria parte di responsabilità.

Luigi Sbarra