Su Facebook va circolando una frequente sentenza di Franco Berardi Bifo (per me tra gli autori più interessanti cresciuti tra la cultura del libro e quella dei social, tra società moderna e società delle reti): «Il quadro concettuale che abbiamo ereditato dal novecento è inutilizzabile». Ma persino sui social pochi hanno capito che la frase si riferisce non alle idee del novecento (c’è tanta “roba buona” sperduta e perduta nel buio di quel secolo) quanto piuttosto al fatto che esse – persino le più lungimiranti – siano inutilizzabili oggi. Qui e ora, decrepite. Dunque fallimentari già per domani.

Un articolo uscito su il Corriere della Sera (5 dicembre) a firma di De Bortoli ne è una dimostrazione. Leggendo l’esordio di questo articolo s’è tentati di dire: finalmente! Ma basta rifletterci un poco e c’è già qualcosa che non funziona: «Se la scuola fosse un’attività economica, se avesse un suo fatturato, l’avremmo trattata certamente meglio». C’è già definita la linea dell’intero articolo. Da un lato, lo sguardo è rivolto alle sorti dell’economia, seppure nei termini della sua produttività sociale, ma proprio per questo – quasi un lapsus – condivide il medesimo indirizzo, convintamente “selettivo”, sempre più assunto dagli apparati della formazione a livello globale (da loro, in Italia, si cominciò a copiare sin dalle riforme di Berlinguer). Dall’altro lato, partono i lamenti sulla attuale contrazione delle ore in aula: uno dei grumi retorici, ideologici e politici – non poco complici gli stessi insegnanti persino quelli con provata esperienza e generosità sul campo – che hanno offuscato e rattrappito i modi di affrontare la questione scolastica nazionale in tempo di pandemia più ancora di quanto lo facessero già prima.

Tuttavia – nonostante i suoi avvisi poco ponderati sulla questione della didattica a distanza – l’articolo è un gran bel pezzo di giornalismo, capace di colpire i responsabili del degrado del sistema formativo nazionale e internazionale. Leggetelo, se vi è sfuggito. Ci trovate, insieme a dati e numeri molto utili, la giusta tensione polemica e l’imperativo di cominciare a risalire la china per recuperare il più presto possibile il tempo perduto., c’è il giusto impeto a mettere al centro dello sviluppo il “capitale umano” (per quanto la formula sia non poco ambigua). C’è una misura etica e politica della produttività che intende apprendere e far fruttare la lezione della pandemia in cui s’è tuttora immersi. Tutto bene, allora?

La risposta è no, un doloroso no: le logiche della ricostruzione hanno in sé l’idea guida – l’impulso istintivo, animale – che l’infranto vada ricomposto, ovvero le rovine di un sistema emendate al fine che esso sia sì riformato ma per consentire le vecchie promesse che ha tradito. Insomma, si precipita qui nelle stesse contraddizioni che il garantismo sarebbe vocato a contrastare. Manca la sostanza in grado di sciogliere davvero le contraddizioni di una società che va superata. Conclusione? A parlare in modo responsabile non basta più la buona cultura, quella che le tradizioni della scrittura e del libro sbattono in faccia alla ignoranza dei giovani nati nella società delle reti (oltre agli analfabeti di ogni generazione).

In anni lontani, ricordo solerti e “studiosi” ragazzi che si presentavano all’esame desiderosi di mostrare il proprio sapere, convinti che questa fosse la sola cosa importante e la sola per cui sarebbero stati valutati con il massimo voto e magari la lode. Mi sommergevano – e sommergevano le mie domande, il loro senso e le mie attese di senso – con una somma di richiami al pensiero di grandi autori scelti come credenziale, carta di identità o credito della propria preparazione. Io speravo di sentire la loro vocazione, loro volevano dimostrare di essere entrati nella professione del sapiente. Quella mia esperienza, la delusione e frustrazione che me ne veniva – ne ero io stesso responsabile: come si trasmette una vocazione ed è dote che si può trasmettere? – mi è tornata alla mente ascoltando alcuni degli interventi alla recente maratona di pensiero sul presente della pandemia, meritoriamente ideata da Giacomo Marramao (così sensibile alla condizione di marasma geopolitico dell’umanità, da lui espressa in termini ultimativi nella formula, forse un poco rocambolesca ma molto efficace, di “universalismo differenziato”). Infatti, anche qui la linea argomentativa di vari intervenuti non è riuscita a privarsi di un accumulo di dotti rimandi ai testi di colleghi, vivi e morti, trascinati a fare da testimonial della propria stessa comunità di pensiero, quando invece la grande brevità del tempo a disposizione e la gravità dell’argomento li avrebbe dovuti convincere a dire l’essenziale. Direttamente in prima persona.

Il panorama di idee offerto da quella iniziativa della Fondazione De Sanctis è stato per me di massimo interesse. Personalmente ne ho ricavato molto, proprio grazie all’ascolto delle voci che più mi sono sembrate ferme al proprio “storico” palo di partenza, instancabilmente ostinate a ripetersi sempre di nuovo uguali a se stesse. Identiche – identità identiche – nel loro modo e desiderio di rifarsi sempre ancora di nuovo alle “buone intenzioni” dei valori culturali e politici ora in lotta con la drammatica congiuntura della pandemia e la crisi endemica del mondo globalizzato dalle/per le economie-politiche del post-capitalismo, della sua catena di effetti a cascata a partire dalla sua stessa “causa prima”. Ho ascoltato voci che non pensano il necessario, non si convincono di quanto non sia più lecito né fruttuoso contare – e tanto più credere – alle buone intenzioni del “principio speranza”: la grande invenzione della civilizzazione occidentale. Le varie ragioni apportate a dimostrazione della propria validità sono le stesse del loro fallimento.

Una delle immagini moderne evocate è stata, giustamente, quella ben “vecchia” eppure sempre attuale del naufragio. Ma ne sono restati ancora gli spettatori. A sentire le loro verità perdute, precipitate nella presupposta e superstiziosa equivalenza digitale tra il vero e falso – sulle quali in vari modi e con diversi punti di vista sono molti ad essersi intrattenuti – c’è a mio avviso un solo nodo critico su cui conviene fermarsi e riflettere. E serve farlo in fretta se almeno si concorda sul fatto che questa nostra epoca è più che mai tempo dell’urgenza. Appetito umano che non si soddisfa del passato e non vede futuro.

Il virus ha reso immediata la paura della morte, non morte della civiltà e neppure morte della natura – anche il virus lo è – ma morte della vita stessa, morte del proprio corpo, della sua sola, esclusiva volontà di sopravvivenza. È emersa la parte nascosta, rimossa, della società civile, quella data invece per scontata, quella più persuasa di sé dal proprio stesso progredire, navigare. Come accade ai ghiacciai quando capovolgono la loro massa galleggiante, portando bruscamente alla luce ciò che prima si nascondeva nel buio, sotto il livello del mare, a rivelarsi è ora lo stato di necessità della natura umana e cioè la sua condizione di sempre, originaria: la condizione mortale che la costituisce in quanto appartenente essa stessa alla natura non umana da cui s’è distaccata senza tuttavia raggiungere l’immortalità (se non nelle dimensioni immaginarie della mitologia, religione, dell’arte e infine della falsa coscienza ideologica).

Per la persona così come per il soggetto – per la persona assoggettata alla propria stessa appartenenza mondana, ovvero inquadrata, chiusa, nei sistemi valoriali, individuali e collettivi, che ora la rivelano invece caduta, precipitata, nella reale o simulata fase terminale della pandemia – si è aperta una fase di sospensione e attesa. Attesa e desiderio che il tempo umano si riprenda dal suo collasso e ricominci a scorrere. Il punto critico da cogliere è allora quanto per la singola persona sia plausibile volere, confidare e accettare che il proprio desiderio di sopravvivenza possa davvero riprendere a funzionare nella stessa struttura valoriale in cui la vita precedente al virus pareva felicemente svolgersi.

Torniamo a Franco Berardi: non sono tra quanti (misconoscendo la fortuna internazionale di cui gode attualmente) lo credono tramontato insieme ai suoi tempi storici, gli anni settanta. Ma semmai va visto in lui chi – intensificando la propria vocazione contro il dolore delle persone e contro la crudeltà di chi lo produce – va ora facendo giorno per giorno critica, persino sofferente autocritica, di quell’epoca e insieme, più ancora e più tragicamente, quella presente. Di cui coglie una specificità particolare, nuova, e su cui, ad evitare l’umiliazione che attanaglia la nostra epoca, elabora una domanda: “siamo destinati, soprattutto le generazioni giovani, a una lunga fase traumatica cui può seguire una sorta di epidemia depressiva, una disattivazione dell’empatia fisica, del desiderio? O al contrario la centralità del corpo che la pandemia ha risvegliato è destinata a riattivare un’affettività sociale che il neoliberismo ha disattivato”?

La domanda su tale alternativa – l’io diviso della vita pandemica – si fonda sulla convinzione che Covid-19 sia un info-virus che colpisce la vita del corpo umano insieme ad ogni sua appartenenza sociale, politica e economica. E sia dunque un fattore di scissione radicale tra le due parti: la carne della persona e l’identità sociale in cui essa è imprigionata (i sensi e i segni). Ne ricava l’attesa che, a fare da cuneo tra queste due parti, sia il desiderio erotico, la reciproca empatia fisica tra le singole persone, il loro faccia a faccia. Proprio quanto è stato oscurato nel gran clamore mediatico sulle regole del distanziamento, automatica duplice reazione immunitaria del globale sistema di dominio, sia sul piano economico-politico sia su quello umano. Logica conseguenza politica del suo stato di necessità. Del suo desiderio di sopravvivenza.

La singola persona – il suo corpo sessuato, empatico, desideroso di non soffrire – entra in urto con ciò che il potere le infligge in quanto assoggettata alla società, in quanto soggetto. Cosa altro sono le intemperanze delle persone, per fortuna in minoranza, che – mettendo a rischio la propria e altrui salute, la propria vita – si ostinano a non ottemperare i divieti pubblici ad assembrarsi, a respirare la medesima aria dell’altro da sé, a toccare le stesse cose d’uso comune e quotidiano? E – tra chi invece rispetta la legge per difendere e difendersi dalla malattia e dalla morte – cosa altro è la violenza che in questo caso la persona fa a se stessa dando legittimità e potere al divieto impostole dalla società, se non il soggetto che le parla dentro?

La persona che, per non soffrire nella propria carne, vince la propria necessità di sopravvivenza ridefinendo il suo rapporto con se stessa e con le necessità del proprio abitare il mondo? Ecco perché la traccia suggerita da Berardi, per troppo amore o troppo idealismo o troppo estremismo politico – può anche essere discussa e discutibile, ma ha tutto il merito di trarre dalla natura estrema della pandemia una indicazione ordinaria sul rapporto tra persona e soggetto che mi pare essere essenziale a una mutazione radicale dei valori da mettere a regime nell’urgente e improrogabile assetto della formazione dei giovani. Penso e dico l’impossibile?

Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 18 dicembre.