In questa ultima puntata di un reportage intenzionalmente stravagante e per nulla ideologico, cercherò di trasmettere al lettore che abbia avuto la pazienza di leggere ciò che ho scritto in questi giorni quella che mi sembra la conclusione più onesta, parlando di una destra in tempi di democrazia parlamentare in cui ci sia una Costituzione protetta e rispettata e in cui troppe carte si sono mescolate nel corso di quattro decenni, per poter essere ricondotte al mazzo originale. La conclusione onesta mi sembra questa: in una democrazia la destra è tutto ciò che arriva in fuga dalla sinistra. Mi rendo conto che è una definizione talmente arbitraria da essere insoddisfacente, ma cercherò di spiegarla con i fatti. Confessando anche che la formulazione non è farina del mio sacco, non interamente.

L’idea ha un nome e cognome: Isabel Diaz Ayuso, con cui ho lungamente parlato e di cui che ho accuratamente studiato gli interventi: questa donna non priva di fascino è la “Presidenta” della regione di Madrid che non è soltanto una regione come il Lazio con dentro Roma, ma una sorta di distretto come quello di Washington capitale degli Usa. Questa donna cresciuta nel Partito popolare si è formata non soltanto in Spagna, ma reagendo ogni giorno a quel che accade nel continente latino-americano. Nel mezzo secolo di democrazia riconquistata dopo la morte di Francisco Franco, la Spagna è diventata la terra del desiderio dell’America Latina da cui sono venuti a Madrid fuggiaschi e delusi dei socialismi cubano e venezuelano, dei fallimenti del Nicaragua e del disastro peronista in Argentina, del socialismo populista di Luiz Inácio Lula in Brasile e dei fallimenti della Izquierda Unida cilena, per non dire della fuga dalla Bolivia delle Farc e dalle ultime ma persistenti memorie delle imprese di Ernesto “Che” Guevara.

Negli anni Ottanta frequentavo molto l’America Latina. Cile e Salvador in particolare ma anche Argentina e Messico e volavo sempre da Madrid, dove mi fermavo una notte per uno spettacolo di flamenco e per visitare il Prado. Ma lo spettacolo più sorprendente per me era e resta la televisione: scorrere i canali di tutte le nazioni che parlano la stessa lingua e che sono su un unico continente con una continuità che non hanno i popoli di lingua inglese o francese. Con sorpresa scoprii che gli spagnoli considerano la Colombia di Garcia Marquez come la cassaforte della loro lingua. Sarebbe come se noi avessimo una Firenze culturale in Canada o nella Guadalupa. Ma l’argomento politico che deriva da questa Hispanidad sta in un sentimento condiviso che è più forte di ogni ideologia: la Spagna contiene dentro di sé tutti i segmenti di Dna politici che i popoli di lingua iberica hanno sviluppato negli ultimi due secoli.

La Dìaz ha fatto tesoro di questa circostanza perché ha costruito a Madrid un laboratorio con tutti coloro che hanno scelto di fare della Spagna la loro casa portando in dote esperienze di fallimenti: «Mi sono fatta l’idea – mi ha detto la Dìaz – che le persone di sinistra, di qualsiasi sinistra, siano quasi sempre bravissime persone, in ottima fede e animate da generosi propositi, ma che hanno tutte commesso lo stesso errore: quello di scambiare l’egualitarismo per uguaglianza, creando immancabilmente un disastro». Quando le ho chiesto di spiegare meglio, la Dìaz lo ha fatto in modo semplice: «Siamo tutti uguali davanti alle leggi, diritti e doveri, ma poi la cosa finisce lì: quanto a tutto il resto siamo differenti e non uguali». Quanto al resto, siamo tutti diversi e diversamene competenti, meritevoli e utili. Quando riconosciamo questa diversità anziché fare sforzi titanici per livellare la società, come è tipico delle sinistre, scopriamo che il mondo può andare bene avanti soltanto se si premiano i migliori e non si cerca di appiattire la società. L’uguaglianza dei diritti non è affatto sinonimo di egualitarismo: per dirla nel linguaggio a voi noto, uno non vale uno».

La Dìaz considera questa visione come il punto d’approdo non tanto della destra, quanto di tutto ciò che ha sperimentato i fallimenti universali dei governi di sinistra con le loro disastrose utopie, così come si sono manifestate non solo nella storia europea, ma anche in quella del mondo ispanico nell’ultimo mezzo secolo così come è testimoniato da tutti i fuggiaschi e i delusi dell’America Latina. Con la forza di questa semplice affermazione, Isabel Dìaz Ayuso ha sbaragliato ha conquistato la maggioranza assoluta e polverizzato sia “Podemos” che ogni populismo della sinistra ideologica. Come “Presidenta” della regione madrilena, si vanta di aver creato una terra d’eccellenza in tutto: università, lavoro, ricerca. Un’altra caratteristica della destra moderna – se proprio la si deve chiamare “destra” – è la propensione verso ciò che in America si chiama Compassionate conservatism, ovvero una manifesta propensione per il sociale: «Ho sempre pensato che la gente pensi che la parola “conservatore” sia sinonimo di persona e politica spietata, senza cuore e dedita solo al profitto – dichiarò il presidente repubblicano George W. Bush – mentre noi al contrario pensiamo che la politica dei conservatori moderni possa investire una dose di ricchezza per venire incontro a tutte le esigenze sociali, di quanto possa fare lo Stato».

La tradizione americana, del resto, ha sempre seguito il principio di detassare chi spende in opere pubbliche. Naturalmente le grandi donazioni ad ospedali ed opere pubbliche di uomini straricchi come Rockefeller non dimostrano che i miliardari sono davvero molto buoni (talvolta come nel caso di Bill Gates che devolve i suoi troppi miliardi in beneficienza, lo sono) ma che la loro efficienza è migliore di quella dello Stato centrale con tutte le sue burocrazie e corruttele. Forse non tutti ricordano quando la questione della grande beneficienza dei ricchi diventò un tema di politica internazionale: fu nei primissimi anni Venti quando la Russia rivoluzionaria si trovò di fronte alla più terribile carestia mai vista e sofferta. Morirono oltre cinque milioni di persone e gli americani, ma anche gli inglesi e i francesi e persino la Croce Rossa italiana, cercarono di sfamare le popolazioni russe ridotte al cannibalismo, da cui deriva la terribile frase poi trattata come una sarcastica battuta – secondo cui “i comunisti mangiano i bambini”, per il semplice fatto che i bambini erano i primi a morire. Uno dei più ricchi uomini della Terra, il miliardario americano Herbert Hoover, che poi diventerà Presidente, riuscì con molta fatica a convincere Lenin ad accettare gli aiuti americani che Hoover pretese di poter elargire col suo personale senza badare a condizioni sociali, politiche o di qualsiasi altro genere.

Fu la più massiccia missione di soccorso capitalista al primo Paese comunista della Terra. La stessa operazione non poté però essere ripetuta durante la seconda grande carestia degli anni Trenta perché in realtà fu un genocidio deliberatamente organizzato da Stalin che pretese ed ottenne la cancellazione dalla faccia della terra attraverso la fame e la sete, di sei milioni di contadini fino a quel momento autorizzati a vendere le loro merci e dunque considerati odiosi “contadini ricchi” o kulaki. Le foto di quel massacro non sono troppo diverse da quelle di Auschwitz e Michail Gorbaciov nel 1989 confermò le dimensioni di quella macabra ingegneria. Oggi in Italia abbiamo schieramenti che possono arditamente essere considerati di destra o di sinistra, se non usando parametri stravecchi. È un fatto che di fronte al Covid la destra salviniana e meloniana abbiano alzato la dubbia bandiera della resistenza alle misure necessarie per contenere la pandemia, mentre il Pd e la sinistra insistono per una politica più autoritaria: entrambi gli schieramenti eccellono in dichiarazioni improvvisate e rozze sull’uso politico delle risorse scientifiche, ciò che prova la superficialità culturale di gran parte della classe dirigente.

Ma possiamo considerare questa una divisione ideologica? Oppure dovrebbe esserlo il Ddl Zan, contro il quale si sono schierati molti esponenti della sinistra come Mario Capanna e le femministe? La sinistra oggi in Italia è accusata da molti di appropriarsi di questioni legate ai diritti civili, abbandonando il campo della politica intesa come progetto – almeno un progetto! – del futuro del Paese. Neanche la destra salviniana ce l’ha e neppure il partito di Giorgia Meloni. Forza Italia avrebbe con sé il patrimonio liberale ereditato dall’Italia che era sì, liberale, ma che non lo sapeva. Preferiva chiamarsi moderata o centrista, senza dar molta prova di moderazione o di centralità perché un comportamento liberale deve spesso agire in modo asimmetrico ed eccentrico.

E che adesso cerca nuovi lumi. E qui si torna all’interrogativo di partenza: ha senso e se ne ha quale, una confederazione di destra alla maniera del partito repubblicano americano? Ognuno è libero di rispondere come crede. Sta di fatto che per fortuna le ideologie intese come opere di ingegneria inflitte all’umanità sono crepate malamente; e il mondo nuovo che ci aspetta è fondato sui valori che possono offrire la cultura e la conoscenza, ma non su nuove ideologie. Parafrasando Woody Allen si può dire che la sinistra è morta, la destra è morta e io personalmente mi sento molto meglio. Senza esserne richiesto, ma anche con le migliori intenzioni, penso che quanto ha scoperto e sta sperimentando la spagnola Presidenta Isabel Dìaz Ayuso, la strada migliore per una destra è quella semplicemente di non-essere la sinistra e avvalersi della consulenza onesta di coloro che hanno creduto alle utopie trovandosi poi in mano un mucchio di cocci, anche insanguinati.

Naturalmente molti pensano che la più orrenda bestia di destra oggi esistente sia il maledetto liberismo, e qui confesso per onestà di fronte a chi legge che per ora soltanto una pratica ben corretta dalle leggi di tutte le libertà, porti ulteriore libertà e migliori condizioni di vita. Ma so già di essere in deplorevole minoranza e dunque chiudo qui questa scorribanda alla ricerca della ipotetica destra felice, o almeno non infelice. E che non metta paura.

(4 – Fine)

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.