Enrico Berlinguer e Aldo Moro progettarono, sognarono, una democrazia della competizione e non della segregazione. In cui l’alternanza al governo fosse fisiologica, risultante del comportamento di voto e non della separazione ideologica e degli schieramenti intangibili. Il tutto in un contesto internazionale bipolare che poneva l’Italia in condizione di discutere le forme di tale appartenenza, ma non la sua collocazione nello spazio occidentale, come deciso a Yalta. Con l’avvio della “terza fase” e l’avvicinamento e la normalizzazione dei rapporti con il Pci, la Democrazia cristiana era finalmente «liberata dalla necessità di governare a tutti i costi», come disse Aldo Moro. Mutatis mutandis, dopo quarantacinque anni è quanto accade al centro-sinistra, e in particolare al Partito democratico in un Paese con una democrazia ancora monca, avendo un polo non (auto)escluso, ma ampiamente illiberale.

La similitudine con il concetto moroteo è emersa riecheggiando nelle parole di Enrico Letta insediandosi al Nazareno. Con una destra a trazione estrema il sistema è inceppato, il Pd “obbligato” a governare, a supplire, a sostituire, a garantire continuità e stabilità. Tant’è che in questa legislatura abbiamo avuto quasi tutte le combinazioni di coalizione che nemmeno in un manuale di scienza politica. E tutto ciò è dannoso per l’intero sistema. E alimenta il populismo, ieri di matrice grillina, domani con tinte nere. La destra italiana è ancora largamente e maggioritariamente immatura, illiberale, di estrema destra. Non ha compiuto i passaggi indispensabili per porsi quale forza “normale” del panorama politico nazionale e nel contesto dell’Unione europea. Che rappresenta per l’asse nero-verde la croce e la delizia delle alterne fortune politiche ed elettorali.

La Lega (Nord) è rimasta impantanata non solo nel fango della pianura Padana quanto a insediamento elettorale e soprattutto sociale, ma ha anche dovuto subire una torsione verso l’estrema destra per assecondare i desiderata del nuovo segretario. Il senatore Matteo Salvini ha infatti sottoposto il partito a una rapida seduta di trucco provando a dargli sembianze meno tribali, e enfatizzando una prospettiva nazionale in chiave e funzione anti-immigrati. In questa operazione ha imbarcato il sostegno, esplicito politicamente e culturalmente, delle scorie settarie fasciste del movimentismo violento (da Casapound in giù). La componente identitaria e regionalista del partito, quella filogovernativa – la Lega Nord ha partecipato al Governo per dodici degli ultimi 24 anni – ha vinto la contesa per il sostegno all’esecutivo Draghi, ma è ostaggio del senatore Salvini, sul piano culturale ma soprattutto su quello elettorale. Senza il truce politico di carriera la Lega (Nord) avrebbe ancora meno voti di quelli declamati dai sondaggi recenti, ma al contempo è bloccata verso una possibile transizione di partito conservatore su basi locali, simile alla Csu bavarese, esempio pure chiaramente indicato da esponenti della prima ora come Roberto Maroni.

La via alla costruzione di un partito nazionale è stata percorsa solo come tour enogastronomico utile a far scordare alle plebi le ignominiose azioni, intenzioni e dichiarazioni dello stesso senatore e dell’intero apparato, da sempre razzista verso il Sud. Facezie prêt-à-porter sui social network di fianco a derrate di cibi, ma il Sud prontamente escluso dalla distribuzione del Recovery fund che nelle intenzioni della Lega Nord serve solo a ripagare i padroncini e i padroni delle ferriere del Nord. Un partito, del Nord, dal Nord e per il Nord. Alla favoletta nazionale credono ormai solo qualche pennivendolo o poche migliaia di disperati, anche perché non v’è più traccia dei comizi sbraitanti nelle regioni del Sud contro le presunte invasioni di migranti. Resta il nazionalismo, sempre in chiave territoriale, ossia sub-nazionale. Identità finto celtica, nazione padana inesistente e politiche ultraconservatrici. Difesa dei privilegi e nessuna spinta alla lotta alle disuguaglianze sull’asse economico, sbandamenti teorici e strategici in politica estera, perseguita senza alcuna bussola geopolitica, ma piuttosto condotta su basi spontaneiste e di opportunità.

Le peregrinazioni del senatore Salvini da Locri hanno toccato i vari angoli del globo in una geografia diplomatica volta a rafforzare il precario controllo sul partito, sulla base, per evitare di essere definitivamente disarcionato dalla Lega ministeriale e industrialista. Per mostrare i muscoli in patria Salvini incontra il gotha dell’estremismo di destra, da Le Pen a Orban, da Kaczyński a Bolsonaro e Trump, fino alla penisola Iberica con le proposte neo-franchiste di Vox e i portoghesi di Chega, senza scordare il rinnegato Putin e il nazionalismo sionista di Netanyahu e le simpatie per Alba Dorata. Un frullatore incoerente e che è anni luce distante dalla Lega Nord, posto che i primi – con vari livelli di differenziazione – perseguono un nazionalismo della patria, mentre Salvini è solo il portavoce della componente governista di un partito regionale. La Lega è il sindacato di base della classe media/alta del triangolo lombardo-veneto-friulano.

Fratelli d’Italia punta decisamente ad ammaliare le casalinghe disperate, il ceto medio impoverito, gli elettori meridionali circuiti dalle sirene leghiste e del M5s, scordati dal Pd romanocentrico. Il partito guidato da Giorgia Meloni, e inebriato da rilevazioni demoscopiche che misurano la popolarità e solo in parte le intenzioni di voto a due anni dalle urne, continua a sovrapporre la riconoscibilità del leader con la reale forza politica. E, pertanto, non si cruccia di condurre una profonda, radicale, decisa e definitiva revisione delle coordinate ideologiche rimanendo ben piantata nel solco della destra post-fascista. L’unica difesa di FdI è il mantra che le ideologie non esisterebbero e che andrebbero valutati i programmi. Uno scaltro escamotage, non nuovo peraltro, che mira a rilanciare evitando di affrontare le questioni dirimenti.

Tuttavia, il filo rosso programmatico del partito è interamente dedicato alla chiusura sui diritti civili, al nazionalismo identitario, il tutto ribadito con toni apodittici sulla società globale, la denuncia del dominio plutocratico e le ambiguità sulle libertà di culto, e ovviamente le barricate contro le migrazioni. E decine di esponenti che non lesinano, impuniti, simpatie e apologie del ventennio ancora presenti finanche nel simbolo elettorale. La permanenza nel gruppo Conservatori e riformisti, un ossimoro concettuale, serve solo a distogliere semanticamente l’attenzione dalla sostanza, ché è composto da partiti di chiara ispirazione neo-patriottica, religiosa, nazionalista, tradizionalista e reazionaria. Gli atti sono conseguenti, come il voto contro la risoluzione europea a condanna di ogni forma di violenza, razzismo e odio, e le reiterate posizioni contro “l’ideologia” gender.

La Destra italiana, come direbbe Juan Linz, è pervasa da una “mentalità” autoritaria, ossia di una ideologia vaga, confusa, di una linea prevalente fatta di un espresso riferimento alla triade Dio, patria e famiglia. Ove ciascuno dei termini è declinato secondo un chiaro indirizzo a base escludente: dio cattolico, patria e ius sanguinis, e famiglia da pubblicità per biscotti. L’asse si è spostato decisamente a destra, sull’estrema destra, anche per la scomparsa di Forza Italia dotata di una solida struttura liberale, che spesso pativa sotto le manovre scomposte e azzardate di Berlusconi, ma che riusciva a contenere proprio grazie a un’ossatura moderata e anche a innesti di individualità di provenienza democristiana, socialista e libertaria. La destra italiana oggi è dominata da una ideologia del culto della personalità che repelle il dibattito, il confronto e la costruzione delle idee. Che pure potrebbero arrivare da vari esponenti che orbitano attorno al duo Meloni-Salvini, troppo chini su sé stessi, tuttavia. Nessuna Scuola di Chicago, nessun approccio neocon, non la rivisitazione delle politiche conservatrici di Reagan/Thatcher o del popolarismo di Kohl, della destra di Sarkozy o Aznar, e nemmeno il disegno neo-repubblicano di G. Bush. Piuttosto le lodi acritiche per un nuovo protagonismo americano sull’onda del post “11 settembre” à la W. Bush o del nazionalismo isolazionista di Trump. E, come nota permanente il nazionalismo anti-EU, surrettiziamente mascherato dalla sussidiarietà, mentre il vero obiettivo è tornare al 1945.

Un conservatorismo caritatevole e popolare solo nella propaganda, mentre nei fatti il grande capitale rimane un solido alleato, e il racconto della difesa del popolo trova molte specificazioni e sottogruppi allorché ci si allontani dall’ideale del maschio bianco. A suffragare questa dinamica, questa analisi, esistono messi di dati, pubblicazioni scientifiche nonché auto-dichiarazioni di esponenti leghisti e di FdI sempre meno a disagio nel palesare intenti fascistoidi ed estremisti. La Lega Nord e Fratelli d’Italia non hanno compiuto nessuno degli atti politici, intellettuali e organizzativi prodromici al passaggio verso una formazione moderna, conservatrice. Ma, il fato e gli dèi sono magnanimi, posto che in Italia quasi nessuno li considera illiberali; pochi ritengono anomalo che stiano al governo (nel 1999 levate di scudi in tutta Europa per l’accesso al rango ministeriale del partito di Jorge Haider in Austria): altra Europa, altri tempi.